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“Non vi sono le condizioni per mettere in discussione la cessione”. Si conclude così l’informativa tenuta dal ministro Franco davanti alle Commissioni Finanze di Camera e Senato riunite ieri sera in Parlamento sul dossier Unicredit-Mps.
Un’affermazione categorica che dimostra, una volta di più, quanto “la politica” e le sue istituzioni tradizionali stiano subendo una rapida quanto profonda trasformazione di fronte all’incedere della competizione tra potenze economiche e poli imperialisti a livello internazionale.
Nella fattispecie, “maggioranza e opposizione” avevano richiesto con urgenza al ministro di riferire in Parlamento sull’operazione portata avanti dal Mef, la quale, a dispetto della sbornia da doppio oro olimpico nei 100 metri e nel salto in lungo, bucava l’opinione pubblica come un “regalo” per l’istituto di piazza Gae Aulenti.
La risposta di Franco, braccio destro di quel Mario Draghi con cui l’Unione europea vuole adeguare il sistema-Italia alle sfide che verranno, è imperativa e in piena continuità con il corso del governo in carica: i soldi li muoviamo noi (riforme della giustizia, concorrenza, fisco), a voi, “partiti tradizionali”, triturati da anni di pilota automatico, le gazzarre (a costo zero) buone per la finta contrapposizione in chiave elettorale, ma in questo gioco non toccate più palla.
I “due governi in uno” si mettono in riga e marciano spediti, con buona pace dei Salvini di turno – fai fatica ad attaccare in modo credibile il governo se sei il governo – e soprattutto della classe lavoratrice, che anche da questa operazione subirà, per stessa ammissione del ministro, licenziamenti a grappoli.
Il resto sono i dettagli che emergono anche dai maggiori organi d’informazione. Il piano di uscita del Tesoro da Mps (titolare ad oggi del 64,2% della banca senese) era in origine previsto per il 2022, e quella data deve essere rispettata, onde evitare esposizione a “rischi ed incertezze considerevoli e a seri problemi di competitività”.
La strategia di sviluppo della banca “ha obiettivi non conformi a quelli stabiliti dalla Commissione europea”, che prevede la riduzione costi fissata al 51% dei ricavi, mentre in base al piano si prevede il 74% nel 2021 e ancora il 61% al 2025.
Da qui, l’annuncio dei 2.500 esuberi su un parco dipendenti di poco più di 20.000 unità, numero di licenziamenti che potrebbe addirittura aumentare (raddoppiare, secondo alcuni analisti) “nel caso probabile in cui la Commissione Ue ponesse un obiettivo più ambizioso” nel rapporto costi-ricavi.
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Dunque, che cessione sia, con tutta la tipica sottomissione delle istituzioni pubbliche/statali ai voleri della classe dominante – nella fattispecie, la borghesia transnazionale europea.
Già nel 2017, il ministero di via XX settembre aveva messo sul piatto 5,4 miliardi di denaro pubblico per salvare il Montepaschi, di cui 3,9 per il 64,2% delle azioni, crollate a circa 700 milioni di valore di mercato ai prezzi odierni.
Per rendere appetibile Mps serve allora una nuova iniezione miliardaria, la cui cifra esatta sapremo solo tra un mese e poco più, ma che Il Sole 24 Ore stima tra i 5 e i 10 miliardi di euro, tra crediti d’imposta (ossia mancate entrate fiscali per le casse statali) a favore di Unicredit (2 mld?), aumento di capitale a carico dello Stato (2,5 mld?), penali assicurative (1 mld?), oneri dei licenziamenti, cause legali.
In cambio, il Tesoro potrebbe ricevere una quota delle azioni di Unicredit, che nel caso di soluzione ritenuta più favorevole dalla banca potrebbe arrivare al 4-5%, un pacchetto considerevole, ma ininfluente sulla governance del gruppo.
Su cosa verte la contrattazione? Sui famigerati 4 miliardi di non performing loans, o Npl, acronimo che indica i crediti deteriorati, ossia quei debiti che molto difficilmente saranno onorati.
Di questi, Unicredit non vuole neanche sentir parlare, per cui la parte della banca senese che dovrebbe finire nella pancia del gruppo con sede a Milano è, guarda caso, solo quella buona, con valore di mercato. Gli Npl invece dovrebbero finire ad Amco, Spa controllata al 100% dal Mef specializzata proprio nella gestione e nel “recupero” dei crediti deteriorati.
Sull’operazione arriva anche il “benestare” dell’altro grande gruppo bancario operante in Italia, Intesa Sanpaolo, che per voce dell’ad Carlo Messina ha dichiarato che non opporrà “nessun ostacolo” all’eventuale acquisizione.
E ci mancherebbe, la concentrazione e la centralizzazione del capitale permette la formazione di quegli oligopoli in grado di aggirare il meccanismo concorrenziale su cui, formalmente, si muove il capitalismo, e di questi oligopoli Messina rappresenta una delle due facce della medaglia (l’altra è proprio Unicredit).
Tendenza al monopolio, avrebbe scritto un saggio filosofo, guidata proprio dalla concorrenza nel “passaggio al suo negativo”. Quella concorrenza che in questi giorni ha inondato le analisi del paese e non solo, rilanciata dalle parole di Biden, e su cui comunque l’antitrust dell’Ue giura di vigilare per i mesi avvenire sugli aiuti di Stato.
Nel frattempo, tutto sembra mettersi in posizione per l’ennesimo regalo di Stato. Che i partiti si adeguino.
Tratto da: Contropiano.org
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