Adesso tocca a un fondo di investimento statunitense (Kkr), ma prima abbiamo aperto le porte a Vivendi (francese) e Telefonica (Spagna). Telecom-Tim era una volta una società pubblica, com’è (era?) ovvio per una rete di telecomunicazioni su cui passano – oltre alle nostre chiacchiere o ricerche internet (l’adsl su rete fissa passa di lì) – tutte le telefonate e i messaggi strategici: militari, magistratura, servizi segreti, governo, ecc.
Una dorsale che qualsiasi Stato degno di questo nome si tiene ben stretta, pretendendo – da vero “sovrano” – di controllare ciò che vi transita. Se questa rete cade in mano private va da sé che l’autonomia di uno Stato viene sottoposta al “capriccio” di un imprenditore privato (e un fondo di investimento è il più opaco degli investitori).
La parte davvero strategica di Tim è infatti proprio la “rete fissa”, quella colossale infrastruttura di cavi, antenne, scatole di derivazione, armadietti, ecc, costruita con soldi pubblici nell’arco di alcuni decenni e già ora nelle mani di privati “non italiani”, ma comunque europei.
Nella struttura societaria, vista la strategicità della rete, lo Stato italiano mantiene comunque una “golden share” – una quota azionaria di riferimento che consente oppure no operazioni di vendita – che dovrà decidere come utilizzare in questo caso.
L’offerta di Kkr per il 100% della quota azionaria (compresa dunque la quota pubblica rappresentata da Cassa Depositi e Prestiti) è di quelle che “non si possono rifiutare”: il 40% in più del valore azionario raggiunto la scorsa settimana. La parte del leone nell’azionariato è al momento fatta da Vivendi, con il 24%.
Ora il governo Draghi, ovvero il governo della Troika (Bce, UE, Fmi), dovrà decidere se esercitare il diritto di veto attraverso la golden share oppure no. Con tutte le conseguenze derivanti da questa scelta.
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Le “comunicazioni strategiche” di tipo politico o militare sono state fin qui garantite proprio attraverso questa formula, con accordi tecnici specifici che sottraevano tali ambiti da quelli a discrezione del consiglio di amministrazione.
Ma è evidente che una proprietà privata del 100%, per di più statunitense, toglierebbe molta credibilità ad accordi dello stesso genere (che ovviamente dovrebbero essere stretti anche con i nuovi proprietari).
Kkr (Kohlberg Kravis Roberts & co) gestisce più di 400 miliardi di dollari atraverso una squadra di appena 1.700 impiegati e consulenti, con oltre 550 analisti capaci di pilotare e consigliare investimenti da una rete dislocata in 20 città di 16 diverse nazioni di 4 continenti.
Fondato nel 1976 a New York da Jerome Kohlberg Jr. e dai cugini Hwenry e George R. Roberts, in questi anni Kkr ha effettuato investimenti in oltre 160 società che spaziano dai settori delle infrastrutture (uno dei più gettonati dal fondo) all’energia, dall’immobiliare al credito.
Nel suo portafoglio figurano investimenti in società del calibro di Alliance Boots, Del Monte, Kodak, Prosiebensat1 e Axel Springer, il gruppo media tedesco di cui poi è diventato il maggiore azionista staccando un assegno di 3,2 miliardi di dollari per una quota del 43,54% del capitale.
Nel 2007, invece, Kkr fu artefice dell’acquisizione di Txu, un’operazione che risultò fino a quel momento il più grande buyout della storia. Dal luglio del 2010 è quotato alla Borsa di New York.
Non stiamo parlando insomma di un avventuriero di fascia bassa, ma di un corsaro con patente rilasciata da Washington…
Tratto da: Contropiano.org