Per i difensori di parte civile “atto di monumentale importanza”. Denunciati Fioravanti, Ciavardini e Mori
Quella del 2 agosto 1980 fu una “strage di Stato”. A scriverlo nero su bianco sono i giudici della Corte d’Assise di Bologna presieduta dal giudice Michele Leoni nelle motivazioni della sentenza che, un anno fa, ha condannato in primo grado all’ergastolo Gilberto Cavallini per concorso nell’attentato alla stazione di Bologna ritenendolo il quarto Nar che agì in concorso con Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini già condannati in via definitiva come esecutori materiali della strage. “Il dilemma se la Strage di Bologna sia stata una Strage cosiddetta ‘comune’ o una Strage cosiddetta ‘politica’ non esiste. – si legge nelle 2.118 pagine di motivazione di sentenza – Non esiste in radice perché si è trattato di una strage politica, o più esattamente, di una ‘strage di Stato’”. Questo lo si comprende, stando ai giudici, “in maniera già esaustiva e incontestabile dai depistaggi che vi sono stati, soprattutto quello consacrato nelle condanne definitive emesse a carico di Gelli, Musumeci, Belmonte, Pazienza (ossia: uomini ai vertici delle istituzioni o che le stavano metastatizzando con le loro consorterie o che erano inviati speciali da Paesi esteri). Queste persone non avrebbero avuto interesse a coprire e mandare impuniti quattro criminali che si divertivano a scatenare il panico nella popolazione e turbavano la convivenza sociale, se in ballo – concludono i giudici sul punto – non vi fosse stato anche il loro interesse. Nessuna logica può affermare il contrario”. Per la Corte il fatto che a 37 anni di distanza (la sentenza di condanna per Cavallini è stata emessa l’anno scorso) “dopo i conclamati depistaggi che hanno condotto a condanne definitive dei vertici dei servizi segreti” l’imputazione della Strage di Bologna “sia si nuovo ‘implosa’ in un’ottica minimalista e ‘spontaneista’ che conduce tutto alla dimensione autarchica di quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo (con le bombe ma anche con il solito corteo di coperture e depistaggi) lascia perplessi anche perché non si sa attraverso quale percorso istruttorio e/o processuale si sia approdati a ciò”. Per la Corte di assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo Gilberto Cavallini per concorso nella Strage del 2 agosto 1980, si è dunque trattato di una “strage politica, o più esattamente, di una strage di Stato”, ribadiscono. I giudici hanno poi precisato che una condanna dell’imputato “per la strage politica non è possibile in questa sede perché – si legge nelle motivazioni della sentenza – inopinatamente e in modo contraddittorio, nello stesso capo di imputazione, nella parte descrittiva del reato, è stata inserita la parola ‘spontaneista’ che costituisce una negazione della strage politica alias di Stato”.
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Ruolo e responsabilità di Cavallini
Nella sentenza i giudici si concentrano sulla figura di Gilberto Cavallini, sul suo ruolo, le sue responsabilità nella morte di 85 persone, le sue conoscenze e le dinamiche che lo hanno riguardato in prima persona nella strage. Gilberto Cavallini, scrivono, “era tutt’altro che uno ‘spontaneista’ confinato in una cellula terroristica autonoma. Nonostante la sua maniacale riservatezza il suo nome è comparso in molti scenari, direttamente e/o incidentalmente”. “Risulta chiaro che Cavallini, con i suoi ‘collegamenti’, era pienamente consapevole dei disegni eversivi che coinvolgevano il terrorismo e le istituzioni deviate”, sottolinea ancora la Corte. Inoltre per i giudici Cavallini “è colpevole anche nella sola ipotesi ‘minimale’ del contributo logistico agevolatore dato dall’ospitalità da lui concessa al duo Mambro-Fioravanti”. E “il fatto che il contributo agevolatore fosse integrato anche dalla semplice ospitalità concessa all’attentatore era di immediata percezione anche per il profano. Ben 38 anni fa”. Analizzando il ruolo dell’imputato nell’ambito delle realtà eversive di allora “è convincimento di questa Corte che Gilberto Cavallini – si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna – fosse consapevole dei progetti eversivi e stragisti che permeavano alcuni settori della destra radicale”. L’imputato, osservano, “sapeva perfettamente che una Strage come quella del 2 agosto si sarebbe comunque inquadrata in un progetto destabilizzante che coinvolgeva alla radice lo Stato democratico, nell’ottica della riaffermazione di uno Stato autoritario che poteva costituire il primo passo verso la restaurazione di una forma di Stato tipo Reich, che egli idolatrava apertamente”. “Tale consapevolezza, sarebbe già sufficiente a fondare la sua responsabilità per Strage politica – scrivono ancora i giudici – ai sensi dell’articolo 285 del codice penale”. Ripercorrendo la carriera criminale di Cavallini, la Corte sottolinea che “aveva contatti con Fachini, Signorelli, Maggi, Soffiati (tanto per citare i nomi più rilevanti), godeva di coperture in Argentina dove era stato “latitante durante la dittatura militare, in un periodo in cui in quel Paese Licio Gelli era un’autorità”, specifica la Corte) e in Bolivia, aveva conti protetti in Svizzera, ha ucciso persone come Mario Amato e Francesco Straullu che stavano conducendo indagini a 360 gradi sulle collusioni fra eversione e Servizi, ha partecipato a spedizioni punitive, si è adoperato a difesa di un’omertà che travalicava ampiamente la sua (apparente) posizione, disponeva di numeri di telefono riservatissimi che riconducevano all’intelligence”. A carico di Gilberto Cavallini non c’è solo “la sua partecipazione a fatti criminali nell’ambito delle formazioni spontaneiste di estrema destra, ma anche, più significativamente, il suo ruolo di elemento di collegamento all’interno della galassia eversiva formatasi sul finire degli anni Settanta”, aggiungono. ”Ciò anche in ragione della maggior esperienza criminale dovuta alla differenza di età con gli altri coimputati, all’epoca dei fatti poco più che maggiorenni o addirittura minorenni, e del suo più articolato percorso criminale”.
“Sono infatti documentati – si legge nelle motivazioni della sentenza – stretti contatti con Massimiliano Fachini, di cui lo stesso Cavallini si dichiara allievo (e dal quale riceverà ausilio in occasione della sua evasione”, Roberto Raho e Carlo Digilio, esponenti della frazione ordinovista veneta. E’ altresì emersa la partecipazione di Cavallini alla formazione Mrp, il Movimento rivoluzionario popolare, scaturita da Costruiamo l’azione, risultata dedita ad attentati dinamitardi a scopo dimostrativo, tra cui quello mancato contro il Csm del 1979″. E poi emerso, scrivono i giudici, “che verso la fine del 1979 Cavallini incontrò Fioravanti proveniente dal Fuan (che in precedenza non aveva disdegnato di porre in essere attentati), seguace della tesi dello spontaneismo armato”. In quel periodo, “si costituisce la banda Cavallini-Fioravanti, destinata a operare sotto la sigla Nar, composta da Francesca Mambro, Egidio Giuliani, Luigi Ciavardini, Giorgio Vale e di Stefano Soderini (‘i sette meravigliosi pazzi’). Lo “strettissimo rapporto con Fioravanti”, comprovato da “numerosi efferati episodi criminali per i quali è intervenuta la condanna definitiva e dalle stesse dichiarazioni di Cristiano Fioravanti – e la condivisione degli obiettivi comuni si accompagna anche all’acquisizione di un ruolo di vertice da parte di Cavallini, come sarà dimostrato – scrive la Corte di Assise – dalla decisione, riferibile allo stesso e al Fioravanti, di espellere Ciavardini dalla banda a causa della telefonata fatta alla Loreti l’1 agosto 1980 e del comportamento tenuto tra il 4 e il 6 agosto 1980, con il quale l’allora minorenne aveva incautamente ‘bruciato’ un documento falso nel corso di un sinistro stradale”.
Depistaggi di Stato
Nella sentenza i giudici parlano dell’esistenza di uno “Stato profondo” responsabile di tutti i misteri della Repubblica. Tutti i depistaggi che hanno contraddistinto le stragi e i delitti ‘eccellenti’ avvenuti in Italia, “ed altresì le ‘provocazioni’ ad hoc – scrivono – costituiscono un’altra prova dell’esistenza in Italia del ‘deep State’, ossia un insieme di organismi militari, economici, politici, associativi, più o meno legali, dalla contiguità più o meno sommersa, e trasversali, che condizionano in modo occulto le strategie di potere, servendosi degli organi rappresentativi come schermo”. E ancora: “I depistaggi da parte di organi dello Stato sono stati la regola che ha contraddistinto tutte le più gravi stragi commesse nel nostro Paese dal 1969 al 1980 (Piazza Fontana, treno di Gioia Tauro, Questura di Milano, Piazza della Loggia, treno Italicus, Ustica e stazione di Bologna), e questa è già la prova, in re ipsa, del fatto che agli autori andava accordata protezione da parte dello stesso Stato”. “Si è quindi trattato – prosegue la Corte – di un disegno costante, unitario, ‘bloccato’ e prolungato nel tempo, segno inequivocabile di un rapporto di reciproca dipendenza fra formazioni criminali e apparati statuali, complici di una strategia concepita a livello alto. Molto alto”.
La pista Palestinese
La Corte ha poi sollevato la questione della pista palestinese, sostenuta dalla difesa. Gli avvocati di Gilberto Cavallini ha impostato “la propria strategia processuale, non sulla contestazione del concorso dell’imputato con Fioravanti, Mambro e Ciavardini nella commissione della strage, che era l’oggetto dell’imputazione” ma sulla “negazione radicale del giudicato di condanna già formato nei confronti di Fioravanti, Mambro e Ciavardini, attraverso la proposizione della pista palestinese (o dì qualcosa di affine o connesso, tipo l’intervento del noto terrorista Carlos e/o di suoi complici)”. Per i giudici, “quella di Bologna è stata una strage buona per tutte le piste, varie, eterogenee, tutte fungibili come pezzi di ricambio”, salvo che “per un comune intento: negare la responsabilità di terroristi di destra italiani, servizi segreti italiani e istituzioni italiane, e dirottare tutto su imprecisate, fantomatiche e fantasiose organizzazioni estere, o su governi esteri che a loro volta reclutavano imprecisati e fantomatici mercenari”. Anche questo, si sottolinea nelle motivazioni della sentenza, “non è senza significato. Ma è anche drammatico, perché rivela come, da più parti ma congiuntamente, sì sia sempre operato sistematicamente per nascondere la verità. Quella della strage di Bologna è e resta una vicenda costellata da una stupefacente convergenza di falsità e depistaggi”. In questo senso “mi auguro che – ha commentato Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna – coloro che insistono sulla pista palestinese o sulle varie piste internazionali la smettano”.
Il caso Maria Fresu, nessuna 86esima vittima
La Corte si è pronunciata anche sul giallo della giovane Maria Fresu, sulla quale hanno discusso a lungo accusa e difesa durante il dibattimento. “Non era possibile la dematerializzazione del corpo di Maria Fresu”, ma un “dato incontestabile c’è: Maria Fresu era lì. Di lei sono stati trovati una borsa, una valigia, una giacchetta, i documenti”, scrive la Corte d’Assise di Bologna, a proposito del ‘giallo’ sui resti attribuiti per quattro decenni alla 24enne di Montespertoli (Firenze), deceduta nello scoppio insieme alla figlia Angela, la vittima più piccola della Strage, e che invece una nuova perizia ha stabilito non appartenere a lei, riscontrando tre profili di Dna diversi. “L’unica spiegazione razionalmente formulabile è che la Fresu, per la sua particolare posizione rispetto all’onda di sovrappressione” rilasciata dalla bomba, “ne sia stata travolta in pieno – sostiene la Corte – e che si stata altresì investita da massicci crolli di strutture, con l’effetto che il suo corpo sia stato smembrato e frammentato in maniera tale da non rendere piu’ assimilabili i suoi resti, che possono essere andati a finire in contenitori residuali, poi dispersi”. Resti umani sono stati infatti ritrovati nell’ex deposito militare dei Prati di Caprara dall’ingegner Danilo Coppe, incaricato della perizia esplosivistica, a 38 anni di distanza, ricordano i giudici. La difesa di Gilberto Cavallini ha poi ipotizzato che i resti della Fresu siano stati a suo tempo sostituiti con quelli di un’altra persona che si voleva non fosse identificata: l’eventuale attentatore, “forse il palestinese (o qualcuno di equipollente), che stava trasportando la bomba altrove e che se la fece scoppiare in itinere. E’ stato cioè ipotizzato – scrive la Corte – che vi sia stato un inquinamento delle prove”. Ma per i giudici appare come incontenstabile “un’altra considerazione: nessuno poteva avere interesse a far sparire il cadavere di un’innocua e anonima viaggiatrice”. Bisognerebbe quindi “inventarsi che l’immaginario inquinatore abbia fatto sparire oltre al cadavere della Fresu – prosegue la Corte – portato via per sbaglio, anche uno o altri cadaveri”. In questo caso però ci si troverebbe di fronte ad una “inverosomiglianza di un depistaggio immediato e contestuale ad un evento non programmato, e la impossibilita’ di identificare resti sparsi nello scenario di totale congerie del dopo-bomba”. In conclusione, per la Corte, “non ci fu alcuna 86/a, 87/a, 88/a vittima”.
Le critiche dei giudici alla pubblica accusa
La Corte d’Assise di Bologna ha poi mosso dure critiche all’impostazione data dalla Procura di Bologna nel processo all’ex Nar. L’inserzione del termine ‘spontaneista’ nel capo d’imputazione, sostiene la Corte, ha “funzionato come clausola di sbarramento per una pronuncia di colpevolezza di Cavallini per Strage politica o di Stato”. Con quella parola, “la pubblica accusa – prosegue il giudice Michele Leoni – ha circoscritto lo spazio dell’incriminazione all’operatività di una cellula terroristica autonoma, estranea da concreti programmi di sovversione istituzionale”. Dunque una condanna a Cavallini per Strage politica “non è possibile in questa sede, perché, inopinatamente e in modo contraddittorio, nello stesso capo di imputazone, nella parte descrittiva del reato, è stata inserita la parola ‘spontaneista’, che costituisce una negazione della Strage politica, alias di Stato”.
Atto di monumentale importanza
Secondo i legali dei famigliari delle vittime la motivazione della condanna all’ergastolo di Gilberto Cavallini “rappresenta un atto di monumentale importanza che rende giustizia alle vittime e che dà spiegazioni logiche ed ampie a numerose questioni di fatto e di diritto. La Strage di Bologna del 2 agosto 1980 è una Strage fascista e ‘di Stato'”. “La sentenza – proseguono – ci mostra il volto del terrorismo nero, al servizio di quegli apparati dello Stato che sabotavano la democrazia dall’interno, mediante l’affiliazione alla loggia P2. Pagine importanti ci sono rispetto alla riunione ‘riservatissima’ del 5 agosto 1980 a cui parteciparono numerosi ministri del governo dell’epoca, rispetto all’omicidio di Piersanti Mattarella e all’inquadramento del fenomeno del terrorismo nero nell’Italia di quegli anni e ai patti di potere che vi hanno fatto da sfondo e che ora stanno emergendo”. Per gli avvocati “franano, inoltre le piste internazionali e il giudice scrive che ‘la verità è che la pista palestinese si basa su elementi tecnico-processuali di una povertà assoluta. Non c’e’ nulla serio che la sostenga’ e che ‘nella pista palestinese non c’è nulla che possa assurgere alla dignità tecnico-processuale almeno di un indizio’. Infine “pienamente convincenti sono le pagine che spiegano la vicenda che toccò a Maria Fresu e che affronta gli effetti distruttivi e devastanti prodotti dall’attentato”.
Denunciati Fioravanti, Ciavardini e Mori
I giudici non hanno illustrato le ragioni della sentenza di condanna all’ergastolo a Cavallini, ma anche esposto una serie di denunce per reati commessi nel corso del dibattimento, dalla falsa testimonianza finalizzata a depistare un processo in materia di Strage, alla calunnia. Le ha indicate in conclusione di sentenza il presidente della Corte di assise Michele Leoni. Tra le persone per cui la Procura dovrà fare indagini c’é l’altro ex Nar Valerio Fioravanti, per falsa testimonianza e calunnia nei confronti dell’ex pm Claudio Nunziata, dell’allora capitano Giampaolo Ganzer che ha accusato di tentato omicidio ai suoi danni, e dell’allora direttore del Dap Nicolò Amato, peraltro padre dell’attuale procuratore capo di Bologna. Di falsa testimonianza risponderanno anche Luigi Ciavardini e l’ex compagna di Cavallini Flavia Sbrojavacca. Ma anche Elena Venditti, Giovanna Cogolli, Stefano Sparti, Roberto Romano, Pierluigi Scarano, Fabrizio Zani. Il generale Mario Mori di falsa testimonianza e reticenza, così come per Valerio Vinciguerra gli atti erano già stati trasmessi in Procura per valutarne la reticenza.
Tratto da: Antimafiaduemila
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