di Agata Iacono
Ieri (finalmente) si è parlato di scuola mettendo l’accento non più sul “grande successo” della Dad (e dello smartworking) o sull’esigenza di “recuperare” l’arretratezza dell’Italia sulla digitalizzazione. Come se, effettivamente, l’evoluzione tecnologica fosse la sfida più importante scaturita dall’emergenza covid19.
D’altronde, dal piano Colao al Recovery Plan, nessuna voce politica o mediatica si è levata per evidenziare le problematiche sociologiche e psicologiche esplose in un anno di lockdown e DPCM.
Passerelle di “scienziati” hanno sostenuto la priorità del paradigma salute fisica sulla salute sociale, spirituale, mentale, affettiva, culturale.
La voce si è levata dai giovani.
Sì, proprio da quei giovani studenti colpevolizzati di essere untori perché desiderosi di socializzare, di amare, di vivere.
“Movida”, la chiamano.
Tutto il giorno a studiare davanti a uno schermo e la sera additati come criminali responsabili del contagio.
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Sono stati loro a scendere in piazza, ordinati, rispettosi delle distanze e con le mascherine, per denunciare che la scuola non è questo. A chiedere, proprio loro, “irresponsabili untori dei pub e della movida”, di poter tornare a scuola, in sicurezza, per costruire il proprio futuro da protagonisti. A rivendicare il diritto all’istruzione, già in una scuola allo sfascio per le controriforme che si sono susseguite in 20 anni di scelte scellerate.
In quest’anno drammatico questi nostri ragazzi sono stati dimenticati, annullati.
E senza alcuna possibilità di progettazione non solo del futuro prossimo, ma di programmazione del proprio futuro.
In effetti, la gestione Conte dell’emergenza covid19, in ogni ambito, non ha fatto altro che determinare un’accelerazione al processo di “società liquida” che già i filosofi e i sociologi contemporanei evidenziano da qualche anno.
Si tratta, in sintesi, del Gap sempre più ampio tra crescita culturale e evoluzione tecnologica, laddove la velocità di trasformazione digitale è erroneamente considerata come sintomo di progresso dell’umanità e della civiltà.
Sempre più una società in cui l’analfabetismo digitale è motivo di disadattamento, senso di inadeguatezza, abbandono della formazione culturale a favore di quella tecnica con possibile sbocco lavorativo e economico. (D’altronde in questo dramma si sono arricchiti solo i colossi del web e dei servizi online).
L’epoca covid19, la Didattica a distanza, gli incontri in zoom, l’impossibilità di socializzare la conoscenza e la formazione, hanno e avranno conseguenze non prevedibili sul futuro culturale e occupazionale.
E i giovani vivono drammaticamente questa incertezza. Hanno dovuto cambiare i loro sogni o metterli in standby.
Sicuramente le chiusure per l’emergenza allontaneranno l’aspirazione ad aprire un ristorante, un’azienda artigianale, un’iniziativa di promozione turistica, col pericolo di fallire per una pandemia imprevedibile.
Per altri motivi non so se le professioni sanitarie saranno così appetibili, penché gli angeli eroi di questa emergenza sono stati i primi martiri di un sistema sanitario assolutamente inadeguato.
L’ aziendalizzazione della scuola ha posto al centro il badget e non più la persona.
La scuola deve cambiare.
Cambiare davvero, perché deve essere il pilastro solido cui sostenersi per affrontare il futuro ed elaborare il trauma di non poter abbracciare, giocare, ballare, fare sport, amare, sognare.
Per elaborare il lutto non serviranno migliori tecniche digitali. Servirà la cultura.
Tratto da: L’Antidiplomatico
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