di Carlotta Becchi**
Il Giappone è stato, fin dall’infanzia, una mia grande passione. Crescendo, ho sentito nascere in me un altro grande desiderio: quello di aiutare il prossimo. Prima di prenotare questo viaggio sapevo che, se avessi avuto la possibilità, oltre a essere una turista mi sarebbe piaciuto fare la volontaria a contatto con i senzatetto di Tokyo, soprattutto dopo aver scoperto la loro difficile situazione. Così, poco prima della partenza, ho contattato un’associazione di volontariato di Tokyo che opera proprio nel quartiere dimenticato dei senzatetto: Sanya.
Perché dico dimenticato? Perché il quartiere non ha più questo nome da parecchi anni. È stato rimosso dal governo per tentare di rimuovere assieme ad esso la sua brutta nomea. È un quartiere particolare, ferito, sfregiato nell’anima da anni di criminalità, yakuza*, bordelli e burakumin (i cosiddetti senza casta, gli emarginati della società). Al giorno d’oggi è il quartiere dei senzatetto e dei lavoratori alla giornata. Non sai dove inizi o dove finisca, ma quando ci sei dentro lo comprendi: senti che è cambiato qualcosa; la sensazione che provi non è la stessa di un qualsiasi altro quartiere di Tokyo. A ricordare ancora l’esistenza di Sanya è rimasto il ‘’Namidabashi”, il ponte delle lacrime, risalente all’epoca Edo, il quale deve il suo nome alle lacrime amare versate da amici e famigliari per i loro cari giustiziati proprio su quel ponte. È facile scorgere vicino ai konbini (convenience store), o in altri punti di ritrovo, dei vecchietti dalle scarpe bucate e con i jeans strappati. Li vedi là, seduti per strada, sui marciapiedi che bevono, chiacchierano e passano la giornata così, tra una lattina di birra e una sigaretta.
Nonostante questo, non fatevi ingannare, non è un posto spaventoso o aggressivo; mai camminando per le sue strade o per i suoi vicoli, anche di notte, mi sono sentita minacciata o in pericolo. È un quartiere che cade a pezzi, ma senti che pulsa, che è vivo. È orgoglioso e vuole raccontare la sua storia, una storia che stona con ciò che normalmente sappiamo sul Giappone, una storia che ne marca le sue innumerevoli contraddizioni.
Quando finalmente arrivo in Giappone, vado all’associazione per conoscere gli altri volontari, tutta gente del posto, alcuni di loro sono addirittura dei senzatetto, pronti a incontrarsi ogni settimana per dare una mano all’amato quartiere. E così, come mi ero ripromessa prima di partire, questa volta con loro ci sono anche io. Il nostro scopo è ripulire Sanya piano piano, giorno per giorno, per cercare di ridarvi lo splendore che, forse, non ha mai avuto, ma merita di avere. Una volta a settimana prendo la metro, cammino fino al punto di incontro dei volontari e, munita di guanti, pinze per i rifiuti e sacchetto di plastica mi unisco agli altri; inoltrandoci tra i numerosissimi vicoletti ci mettiamo a pulire, a raccogliere lattine, mozziconi e chi più ne ha più ne metta. Mi imbatto in quei vecchietti seduti sui marciapiedi che subito si alzano, si avvicinano, mi chiedono da dove vengo e appena scoprono che sono italiana il loro stupore è enorme: alcuni provano a dire qualche parola in italiano, altri mi dicono di essere stati in Italia o di aver sempre sognato di visitarla. Certi parlano così veloce che, per colpa del mio giapponese ancora alle prime armi, non riesco a capirli. Uno di loro si avvicina più degli altri e poggia una mano sui miei capelli per poi afferrare un piccolo fiore che vi si era aggrovigliato, facendomelo vedere e sorridendomi. Li saluto e proseguiamo tra i vicoletti dove mi vengono indicati parecchi posti che, mesi fa, mi dicono con fierezza, erano pieni di immondizia, ma che ora, grazie ai loro sforzi, iniziano ad essere più puliti. Finita la pulizia del quartiere smistiamo i rifiuti raccolti in strada e ci dirigiamo al Sanya Café, una piccola caffetteria presente all’interno di uno degli Hotel della direttrice dell’organizzazione di volontariato. Qui, ai volontari viene offerto del cibo come ringraziamento per il lavoro fatto. Nelle quattro occasioni che ho avuto di collaborare con questa associazione, ho intervistato la direttrice, per saperne di più sul suo lavoro di volontaria a Sanya e sul quartiere stesso.
Cos’è YUI Associates e da quanti anni esiste?
YUI Associates è un’organizzazione di volontariato nata nel 2003 dalla proposta di un piano di rivitalizzazione per la via dello shopping IROHA, che non ha avuto successo. In realtà, il progetto principale di quel piano era quello di gestire un Internet Café, utilizzando un negozio vuoto; sarebbe stato il Sanya Cafè. Dal 2005 abbiamo iniziato a organizzare incontri tra ex lavoratori alla giornata che cercavano lavoro e i proprietari e gestori degli ostelli di Sanya in cerca di addetti alle pulizie. In alcuni casi ci sono stati degli attriti tra proprietari e lavoratori, di conseguenza abbiamo deciso di provare a gestire un ostello da soli. L’Hotel Meigetsu è il nostro primo ostello e lo gestiamo dal 2009.
Che cosa l’ha spinta e motivata a fondare quest’organizzazione e cos’è il Sanya Cafe?
L’ingiustizia sociale è ciò che mi ha motivata fin dall’inizio, soprattutto vedendo la dura condizione e il pregiudizio che i senzatetto si trovavano ad affrontare ogni giorno, poiché alcune grandi organizzazioni che avrebbero dovuto aiutarli, al contrario, li hanno penalizzati.
L’idea di un Café risale, come ho detto prima, al progetto originale del 2003. Cercavamo un modo per raggiungere i viaggiatori, stranieri e non, e i senzatetto. Al giorno d’oggi, ci sono meno persone costrette a vivere per strada rispetto a quel periodo, ora la maggior parte di esse è a carico delle agevolazioni sociali e vive in ostelli. Il rapporto con i residenti però non è buono. Data la loro abitudine di bere, inquinare e occupare le strade, sempre più residenti chiedono di escluderli dalla zona di Sanya. Abbiamo iniziato un progetto di pulizia locale per alleviare la tensione tra loro ed evitare conflitti.
Che cos’è esattamente Sanya? Quando, come e perché il nome di questo quartiere è stato rimosso?
Dal periodo Edo esistono ostelli economici a Sanya e molti viaggiatori si sono concentrati qui. Si dice che “Sanya” prenda il nome dal termine “tre case” (三家) e che si sia poi trasformato in Sanya (山谷), termine che ha lo stesso suono, ma è scritto diversamente.
Sempre durante il periodo Edo sia il campo di esecuzione, Kozukappara, sia il quartiere a luci rosse, Yoshiwara, sono stati spostati nelle vicinanze. Probabilmente, da quel momento è iniziata la discriminazione dei residenti locali.
Ci sono così tante persone che non hanno niente e nessun posto dove andare. Si sono riuniti qui a Sanya per trovare lavoro durante il periodo di rapida crescita economica del Paese. I posti di lavoro erano però instabili: molte persone sono state licenziate a causa dei mutamenti industriali, mentre le piccole fabbriche lottavano per competere con l’espansione economica internazionale.
I problemi con i lavoratori diurni, riuniti nel quartiere, sono aumentati specialmente durante gli anni Sessanta, con il coinvolgimento di gruppi criminali ed estremisti politici, tra violenza e disordini.
Circa cinquant’anni fa, il governo ha ufficialmente cancellato il nome Sanya, dividendo l’area in due: Kiyokawa e Nihonzutsumi. Nonostante ciò, il nome “Sanya” è ancora associato a cose negative come l’alcool, la criminalità, la disoccupazione e la violenza, lo stigma intorno a sé è rimasto. I lavoratori di lunga data considerano e si riferiscono ancora all’area di Sanya come la loro comunità.
Ritiene che la semplice rimozione del nome Sanya abbia effettivamente portato a qualche cambiamento nel quartiere?
La maggior parte dei residenti locali, forse in un primo momento, si sentiva sollevata dal fatto che il nome “Sanya” fosse stato cancellato dal loro indirizzo ufficiale, in questo modo gli altri non riuscivano a capire immediatamente che vivevano nell’infame area pericolosa. Tuttavia, la situazione non è cambiata così tanto: Kiyokawa e Nihonzutsumi (e a volte Minami-senju), gli attuali indirizzi ufficiali che sostituiscono Sanya, sono già diventati uno svantaggio se si fa domanda per un lavoro regolare, soprattutto quando l’indirizzo che viene fornito è il nome di un ostello.
Detto questo, credo che la riappropriazione del nome “Sanya” sia la chiave per una sana rivitalizzazione del quartiere e di tutte le persone ad esso associate.
Sanya è sempre stato il quartiere dei cosiddetti “burakumin”, può dirmi di più su chi sono e perché sono stati allontanati dalla società giapponese e considerati degli emarginati?
Il termine burakumin (部落民, ” gli abitanti dei villaggi”, “coloro che vivono in villaggi”) connota un gruppo di emarginati alla base dell’ordine sociale, tradizionale giapponese, storicamente vittima di gravi discriminazioni e ostracismo, che tradizionalmente viveva in comunità, villaggi o ghetti. Originariamente, erano membri di comunità emarginate durante l’epoca feudale giapponese, composte da persone con occupazioni considerate impure o contaminate dalla morte (come carnefici, impresari, lavoratori nei macelli, macellai o conciatori) e con gravi stigmi sociali di kegare (穢れ, ” profanazione”) ad esse collegate. Nel periodo di Edo, il governo feudale aveva adottato il sistema delle caste ed essi sono stati classificati come emarginati.
L’area di Sanya si trovava proprio alla periferia dell’area di Edo (Vecchia Tokyo), un posto adatto per ospitare luoghi come Kozukappara e Yoshiwara (吉原). Il primo era uno dei tre terreni di esecuzione dove lo shogunato Tokugawa giustiziava criminali nel periodo Edo, mentre il secondo era un famoso yūkaku (distretto a luci rosse). Sebbene, grazie all’abolizione del sistema delle caste feudali del 1871, la classe dei burakumin legalmente non esista più, l’emarginazione e la discriminazione sociale nei loro confronti non è scomparsa, né i pregiudizi contro il loro livello di vita più basso. Anzi, fino a poco tempo fa, la registrazione anagrafica della famiglia giapponese era collegata a un indirizzo di residenza ancestrale, che permetteva alla gente di ricondurre l’ appartenenza familiare di qualcuno ai burakumin.
Secondo la testimonianza di Mitsuhiro Suganuma, un ex membro della Public Security Intelligence Agency, i burakumin rappresentano circa il 60% dei membri dell’intera yakuza. Il docente universitario David E. Kaplan e il giornalista Alec Dubro scrivono nel 1986 che i burakumin costituiscono circa il 70% dei membri della Yamaguchi-gumi, il più grande sindacato yakuza del Giappone.
La lunga storia di tabù e miti dei buraku ha lasciato un’eredità di desolazione sociale. Dagli anni Ottanta sempre più giovani burakumin hanno iniziato a organizzarsi e a protestare contro presunte ingiustizie sociali, con l’incoraggiamento di gruppi di attivisti politici, creando dei movimenti i cui obiettivi vanno dalla liberazione della classe dei burakumin alla promozione dell’integrazione di questi ultimi nella società giapponese.
Lei ha diversi alberghi sia per viaggiatori sia per senzatetto, può raccontarmi qualcosa in proposito?
Abbiamo iniziato a gestire l’Hotel Meigetsu nel 2009 e il Juyoh Hotel nel 2013, due alberghi per viaggiatori. Come addetti alle pulizie, abbiamo assunto lavoratori in difficoltà. Puntiamo ad avere successo come azienda alberghiera in modo che possano essere orgogliosi sia di avere un lavoro sia di lavorare a Sanya in hotel con una buona reputazione.
Il terzo albergo è Ariake, nato nel 2014, è quello che ospita i senzatetto. Grazie alle capacità apprese nella gestione degli alberghi per viaggiatori, riusciamo a tenere Ariake fisicamente pulito e in ordine in modo che i nostri ospiti possano vivere con la dignità che dovrebbero avere.
Che tipo di persone vivono in Ariake? Quanti anni hanno?
La maggior parte delle persone che vive in Ariake ha sussidi sociali e/o qualche tipo di disabilità. Sono tutti senzatetto d’età compresa tra i quaranta e i novant’anni, il più vecchio ha novantacinque anni.
Se cito Sanya, quasi nessun giapponese sa di cosa sto parlando. Pensa che se la popolazione di Tokyo fosse più informata e consapevole della situazione di Sanya e dei senzatetto, le cose potrebbero cambiare positivamente, un giorno?
Sì, sicuramente. Tuttavia, sto ancora facendo attenzione alla situazione attuale perché le grandi organizzazioni di sostegno per i senzatetto sono dominanti e hanno stretti legami politici. Sono conosciute come Hinkon Business (貧困ビジネス, industria della povertà) e la più grande di queste è associata all’ala destra, vicino alla mafia. C’è un’altra grande industria della povertà legata invece ai politici e alle organizzazioni di estrema sinistra, che ha cercato di ostacolare gli alberghi esistenti a Sanya. Siamo quindi in una situazione un po’ complicata, dobbiamo agire strategicamente per non essere neutralizzati da loro.
Tutto quello che possiamo dire nel complesso è che vorremmo promuovere la ristrutturazione degli alberghi e ostelli esistenti nel quartiere, in modo che le persone possano vivere con dignità, per salvare Sanya e la sua gente.
Il governo giapponese ha cercato, o sta cercando, di fare qualcosa per risolvere il problema oppure ha semplicemente preferito ignorarlo? Se a suo parere lo ha ignorato, perché?
Come detto in precedenza, il governo ha un forte legame con le organizzazioni dell’industria della povertà, non ci ascolterebbero facilmente. Anzi, cercherebbero di avvantaggiarle politicamente, a nostro discapito.
Nel frattempo, la situazione a Sanya è complicata: un misto di differenti mentalità e di gente in agonia, d’indifferenza e pregiudizio; probabilmente, il governo centrale e il governo locale preferiscono ignorare la situazione. Per questo motivo, ci sentiamo in dovere di proporre un piano di sviluppo comunitario in modo che tutti gli abitanti del quartiere possano vivere felici insieme, nonostante la mancanza di fondi e di risorse umane. Per fortuna, ci sono funzionari a Taito City, il governo locale, con cui possiamo comunicare, quindi abbiamo ancora una speranza.
Ogni venerdì vi riunite con altri volontari per andare a pulire le strade del quartiere. Che cosa vi spinge a farlo?
Ritengo che il problema attuale che abbiamo a Sanya sia dovuto allo stile di vita della gente, la maggior parte è a carico dell’assistenza sociale. Vorrei fare qualcosa per alleviare la tensione tra i residenti e i senzatetto che risiedono negli alberghi. Inoltre, il nostro obiettivo è quello di aiutare le persone e, pulendo il quartiere, abbiamo la possibilità di conoscere i bisognosi per strada, parlare con loro e invitarli a unirsi alla nostra attività.
Infine, cosa pensa che si possa fare, soprattutto da parte delle nuove generazioni, per risolvere questo problema e migliorare la situazione?
Vorrei che un maggior numero di ragazzi si unisse a noi e sostenesse le nostre attività, anche se so che per molti di loro sarebbe difficile a causa dei pregiudizi e della paura.
Abbiamo aperto il Sanya Café anche per accogliere persone che hanno appena iniziato ad avere interesse per Sanya, oltre a quelle che sono in condizione di povertà. La gente può semplicemente visitare il Sanya Café o donare una tazza di caffè sospeso. Dimostrare interesse è l’inizio per superare l’indifferenza e andare avanti, vedere dei giovani farlo sarebbe un piacere per noi.
Finite le interviste, poco prima della mia partenza e in maniera stranamente casuale, sono stata messa in contatto con un ex dipendente di uno degli hotel della direttrice, tramite un volontario che avevo conosciuto, il quale mi ha chiesto di essere ascoltato perché aveva cose importanti da raccontarmi riguardo l’associazione di volontariato. Questa persona, per circa un anno, ha avuto contatti con l’organizzazione e dopo la sua esperienza ha sentito il bisogno di condividere con me, e con i lettori di questo articolo, cosa ha visto e vissuto. Riflettendoci e non vedendo motivi per cui possa avermi mentito, ho trovato giusto ascoltarlo e credere alle sue parole. Quello che mi ha detto mi ha lasciata di stucco sin dall’inizio: pensavo di conoscere abbastanza bene la cultura giapponese, i modi di fare, i comportamenti, il modo di pensare, le maschere che spesso si indossano, ma mai avrei creduto che qualcuno potesse essere così bravo a portare quelle maschere.
Mi ha raccontato di come la direttrice fosse coinvolta in casi di assunzioni di dipendenti giapponesi e stranieri senza il visto consono o senza contratto, dipendenti che, a fine lavoro, sono stati costretti a compiere favori personali in cambio del loro legittimo stipendio. Casi di atteggiamenti di prepotenza, persecuzione, stalking verso alcuni membri dello staff dell’albergo e del Café, richieste di favori sessuali a ragazzine (essendo esse oggetto di desiderio della direttrice). Mi ha raccontato anche che spesso il caffè in sospeso per i senzatetto, citato nell’intervista, non viene mai veramente dato a loro, ma è offerto ad amici stretti o non usato affatto. I senzatetto, visti male per paura che possano rovinare l’immagine del Café, sono allontanati con la scusa che puzzano e hanno comunque due soldi per vivere anche senza il loro aiuto. Il fantomatico caffè viene servito solo se danno segno di essere in fin di vita o quasi. I vestiti che la direttrice riceve, da distribuire ai senzatetto, vengono venduti a questi ultimi, invece di essere donati gratuitamente. La direttrice, svolgendo l’attività di volontariato e avendo gli hotel, soprattutto quello per i senzatetto, riceve sussidi dallo Stato, così ne ricava un guadagno a discapito di questi ultimi.
Il volontariato e la pulizia delle strade, come ho potuto constatare personalmente, sono cose che effettivamente vengono fatte con efficienza, ma molto probabilmente servono solo per nascondere la realtà dietro a una bella facciata.
Tornassi indietro, penso che rifarei le stesse scelte che ho fatto: la pulizia delle strade è stata vera e i caffè in sospeso li ho donati con il cuore, anche se ora, dopo ciò che ho appreso, dubito verranno mai dati a qualche senzatetto; questo mi dispiace molto. Tendo sempre a fidarmi molto del prossimo, soprattutto in casi come questo dove si parla di fare volontariato e aiutare gli altri. So benissimo che moltissime organizzazioni lucrano su queste cose, ma forse ripongo sempre troppa fiducia nella bontà delle persone per poter pensare male o accorgermi del marcio che spesso è nascosto dove non posso vederlo. O forse, come detto prima, sono queste persone ad essere troppo brave nel nascondere le proprie intenzioni e la loro vera natura dietro le mille maschere che, fin dall’adolescenza, la cultura giapponese insegna a indossare con maestria.
Parlando e confrontandomi a lungo con la persona che mi ha dato queste informazioni ho finalmente capito la vera realtà dei senzatetto in Giappone e, nella maggior parte dei casi, tutto si ricollega alla società. È una società piena di regole, di codici, di paletti che non possono essere spostati, rimossi o modificati. Tutto gira intorno a una mentalità, a un modo di pensare, a una norma di comportamento non scritta, ma che da sempre ha fatto da padrona nella società giapponese ed è difficile, se non impossibile, da estirpare. Un mondo di contraddizioni, di ipocrisia, di omertà, dove ciò che importa è l’immagine di sé stessi e non sé stessi. È più importante apparire, perché è l’apparenza che conta e ti fa ottenere un lavoro o meno, che decide se sarai elogiato o criticato, se sarai migliore o peggiore di colui che ti sta affianco. Sono i soldi che possiedi, la ditta per cui lavori, il tuo status sociale a definire la persona che sei e tutti tengono terribilmente a questo. Quando sei in quel Paese, le persone ti potranno sorridere, saranno educate. Se sei straniero e non abituato potrai anche pensare che stanno esagerando con la loro gentilezza e disponibilità; arriverai quasi a credere che sia normale, forse tutti quelli che hai incontrato sono veramente brave persone, pronte ad aiutarti. Invece, purtroppo, chi vive lì e si addentra fino nei meandri della società giapponese, con il tempo, impara che a volte è soltanto una maschera. Anzi, molte volte lo è. È quasi sempre una facciata usata per raggiungere i propri obiettivi, per convenzione, perché tutti lo fanno, quindi lo devi fare anche tu o non sopravvivi, non diventi adulto. È una società all’interno della quale diventa veramente adulto solo chi riesce a fare tutto questo, senza il minimo sforzo. Così è difficile che riescano mai ad essere veramente sé stessi, ma solo a mostrarsi come la società ha insegnato loro ad apparire. Li vedi per le strade, circondati da migliaia di persone, ma così soli. Li vedi di mattina svenuti sui marciapiedi, nelle stazioni o nelle strade perché hanno bevuto troppo, durante le loro serate obbligatorie tra colleghi; se ti devi integrare con gli altri devi uscire e ubriacarti, forse l’alcool diventa l’unico mezzo attraverso il quale, per un po’, riescono a trovare il vero io e tornare a essere loro stessi. Li vedi fare gli straordinari di ore e ore, addirittura non finiscono la giornata lavorativa per completare una consegna, perché non farlo sarebbe una cosa strana. Li vedi isolarsi, perché il caos della città e il peso delle loro maschere li ha resi troppo stanchi per poter ancora avere le forze di stare a contatto anche con gli amici; amici con i quali, probabilmente, una piccola maschera esiste ancora. È una società che non perdona, che non ha vie di mezzo. Nel Paese dell’equilibrio, molto spesso, manca l’equilibrio e diventa irrimediabilmente tutto nero o tutto bianco. Quelle poche persone che, sane nel mondo degli infermi, non si uniformano e si dissociano, vengono etichettate come pazze, disagiate, emarginate e alla fine finiscono davvero per impazzire, perché la sofferenza del non appartenere e di non essere accettati è troppo gravosa e andarsene, impazzire o ritrovarsi in una strada a bere dalla mattina alla sera è l’unica cosa che rimane. Quando in Giappone perdi la faccia, la perdi per sempre. Vieni etichettato e reintegrarti è quasi impossibile perché i pregiudizi su di te rimarranno sempre vivi nel resto della società.
Sono arrivata a sospettare che i senzatetto, forse, non vogliano aiuto. Il sussidio che ricevono dallo Stato potrà non essere un patrimonio, ma a loro basta perché non hanno convenienza a tornare nella società. Significherebbe doversi reintegrare, sapere di non essere mai accettati davvero, dovranno indossare nuovamente quelle pesanti e fastidiose maschere e dovranno rimettersi a lottare, a confrontarsi con la dura società giapponese. Non hanno più nulla da perdere, lo sanno e gli va bene così. Quando non hai più nulla da perdere puoi alzarti, dire la tua e far sentire la tua voce senza aver paura di nulla, perché quello che potevi perdere lo hai già perso. I poveri non vogliono essere aiutati, non chiedono di essere aiutati, forse perché l’inferno della strada è più sopportabile di quello della società. Si sentono liberi, privi di catene sociali e questo a loro basta.
Tutto ciò potrebbe sembrare estremamente pessimista, qualcuno potrà credere che io abbia fatto di tutta l’erba un fascio. È esattamente tutto vero come l’ho descritto? Non c’è nessuna speranza per la società giapponese? È così in tutto il Giappone?
Ovviamente no, almeno non al 100%. Non è assolutamente mia intenzione fare di tutta l’erba un fascio, non tutto è male e sbagliato. Tutto può sempre essere recuperato, migliorato con più o meno difficoltà. Io stessa non voglio arrendermi all’idea che ogni cosa sia negativa, voglio ancora vedere e sempre vorrò vedere la luce anche dove sembra non esserci o essercene poca. Quando ami veramente qualcosa o qualcuno, lo critichi, non per cattiveria, ma affinché possa, prima o poi, capire i suoi errori e migliorare; perché tu stesso, con tutte le tue forze, vuoi che ciò accada. È come un grido nel deserto, non sai se verrà mai sentito, se raggiungerà il suo obiettivo, ma tu ci provi lo stesso e urli, con tutto il fiato che hai in corpo. Chi non ama, ignora. Non posso conoscere il pensiero di tutti e non voglio pensare che le persone giapponesi siano così, perché certamente non è vero. Ciò che mi duole constatare è che la maggior parte della gente è improntata ed educata in questa maniera. Desidero che voi lettori di questo articolo capiate che quanto ho scritto è stato dettato da ciò che ho visto e provato, dalle mie esperienze personali e dalle esperienze raccontatemi da persone che hanno vissuto o vivono in Giappone da parecchi anni; o comunque, che lo hanno vissuto più di me. Mi dispiace dirlo, anche a me stessa, perché è un Paese che amo, ammiro da anni e continuerò a farlo. Nonostante i numerosi lati negativi, nulla è mai del tutto perduto, ci sono anche lati positivi e come in tutte le cose basta saperli trovare: non solo maschere, doppie facce, ma anche cultura, tradizione, ordine, rispetto, armonia e molto altro.
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