Perché diciamo “No” ai quesiti proposti
Di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
Ci siamo. Il 12 giugno 2022 il popolo italiano sarà chiamato ad esprimersi su cinque quesiti inseriti nel Referendum abrogativo in materia di giustizia. Nulla da eccepire sul metodo scelto.
Quello del referendum popolare è uno strumento previsto dalla nostra Costituzione ed è sacrosanto che ad esprimersi possano essere i cittadini, ancor di più se i punti riguardano temi che possono incidere direttamente sulla nostra democrazia. E la giustizia è sicuramente una materia delicata in tal senso.
I cittadini, però, devono essere messi in condizione di conoscere in maniera completa cosa verrà modificato, o meno, con il proprio “Sì” o il proprio “No”.
A prescindere da ciò che sarà, dal momento in cui secondo i sondaggi vi sarebbero anche forti rischi che il quorum non sia raggiunto, approfondendo i quesiti referendari la nostra scelta, chiara e netta, è quella di dire un fermo “No!” alle proposte di Lega e Radicali (partiti che si sono spesi in prima persona nella raccolta firme).
Un “No” che parte anche dalla considerazione che vi sono dei punti che in maniera più o meno diretta ricalcano una vecchia idea di riforma piduista a nostro avviso pericolosa per la nostra stessa democrazia.
Obiettivo P2
Basta rileggere il Piano segreto di Rinascita di Licio Gelli, Maestro Venerabile della loggia massonica segreta P2, per rendersi conto che molti spunti dello stesso siano inseriti nel referendum di domenica prossima.
Tra gli obiettivi vi era quello di intervenire sulla magistratura “che deve essere ricondotta alla funzione di garante della corretta e scrupolosa applicazione delle leggi”.
Un obiettivo da raggiungere con una serie di riforme, tra cui, per l’appunto, “la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati (pericolo scongiurato, per ora, solo grazie all’intervento della Corte Costituzionale che non ha ammesso il quesito, ndr); il divieto di nominare sulla stampa i magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari (la riforma dell’ingiustizia Cartabia ha di fatto messo un bavaglio ai magistrati e alla stampa, ndr); la normativa per l’accesso in carriera (esami psico-attitudinali preliminari); la modifica delle norme in tema di facoltà di libertà provvisoria in presenza dei reati di eversione – anche tentata – nei confronti dello Stato e della Costituzione, nonché di violazione delle norme sull’ordine pubblico, di rapina a mano armata, di sequestro di persona e di violenza in generale”.
Tra gli aspetti previsti anche la volontà di togliere l’autonomia al Csm (“Riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento”) o ancora la separazione delle carriere: “Riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per le funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la funzione pretorile”. Se sul Csm è in corso in Parlamento la discussione nell’ambito della riforma della giustizia, il secondo punto trova spazio proprio nel referendum abrogativo del 12 giugno. E già basterebbe questo per farci tendere verso il “No!”. Ma vediamo i rischi che si nascondono dietro ad ogni quesito.
Quesito 1: abrogazione del decreto Severino.
Il primo quesito (scheda magenta) chiede di abrogare il decreto legislativo 235/2012, approvato sull’onda degli scandali di corruzione, anche noto come legge Severino. Parliamo di una legge complessa, con numerose declinazioni in più ambiti della politica: nazionale, regionale, provinciale e comunale.
Nel testo si prevede l’incandidabilità e l’ineleggibilità in Parlamento e negli enti locali dei pregiudicati per gravi reati (fra i quali ci sono reati di associazione mafiosa, riduzione in schiavitù, terrorismo, prostituzione minorile e traffico internazionale di droga; o ancora reati con pene sopra a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati contro la Pubblica amministrazione come la concussione, corruzione, peculato, malversazione, induzione indebita a dare o promettere utilità), nonché la decadenza – in caso di condanna sopravvenuta – dalle cariche elettive o dagli incarichi di governo. Per gli amministratori locali, e questo è sempre stato uno dei punti più discussi, può scattare la sospensione anche dopo una condanna non definitiva.
Il problema più grande del quesito referendario è che con una vittoria del sì si avrebbe l’effetto di cancellare l’intero decreto, riportando nella discrezionalità del giudice la scelta di applicare o meno – in sede di condanna – la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici (simile all’incandidabilità ed ineleggibilità, ma applicabile più difficilmente). Il rischio, di cui pochi parlano, è che così si darebbe una nuova possibilità anche a condannati definitivi per reati gravissimi, di tornare in Parlamento.
Quesito 2: limitazione delle misure cautelari.
Il secondo quesito (scheda arancione) è un altro argomento delicato e vorrebbe la “Limitazione delle misure cautelari: abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale”.
Considerato che le misure cautelari riguardano provvedimenti urgenti e temporanei che limitano la libertà personale dell’indagato/imputato, partiamo dal primo dato.
La “lettera c” di cui si fa riferimento è il pericolo di reiterazione del reato che si ha “quando (…) sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede”.
Una vittoria del “Sì” avrebbe effetti immediati e al contempo devastanti sull’intero sistema giudiziario nel momento in cui diventerebbe impossibile disporre qualsiasi misura cautelare (non soltanto il carcere) motivandola con il rischio che l’indagato/imputato commetta di nuovo il reato di cui è accusato o altri simili, se questi non implicano l'”uso di armi o di altri mezzi di violenza personale”.
Per prima cosa bisogna comprendere che non tutti i reati implicano l’uso di violenza o armi.
Quindi c’è il rischio che con questa norma vengano colpiti reati come lo spaccio, i furti e le estorsioni, ma anche, tutti quei reati che riguardano i “colletti bianchi” (corruzione, concussione, turbativa d’asta, bancarotta). Togliendo il pericolo di reiterazione del reato, all’udienza di convalida, di fronte al giudice per le indagini preliminari, il pubblico ministero sarebbe costretto il più delle volte a chiedere la scarcerazione per mancanza di esigenze cautelari.
Infatti, per la misura cautelare, resterebbero solo altri due presupposti particolarmente più difficili da dimostrare: alla “lettera a” il pericolo di inquinamento delle prove (“Quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze (…) in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova”) e alla “lettera b” il pericolo di fuga (“Quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga”)
Inoltre i promotori del “Sì” sostengono con fermezza la necessità di intervenire sul punto in quanto molti dei sottoposti a misure cautelari risulterebbero poi innocenti. Una considerazione smentita dai fatti nel momento in cui, secondo i dati del ministero della Giustizia riferiti al 2021, meno del 10% delle 32.805 misure emesse nel corso dell’anno ha avuto come esito un’assoluzione definitiva (appena l’1,6%) o non definitiva, o un proscioglimento a vario titolo.
Altro aspetto che va tenuto in conto è che anche le associazioni contro la violenza di genere si oppongono al quesito: se passasse, infatti, diventerebbe molto difficile disporre divieti di avvicinamento e altre misure precauzionali a tutela delle donne minacciate, visto che non sempre – almeno nelle fasi iniziali – gli stalker usano violenza fisica.
Quesito 3: separazione delle carriere tra giudici e Pm.
La scheda gialla è dedicata al tema critico della separazione delle carriere. Per comprendere quanto è complesso il tutto basta già provare a leggere il testo del quesito, lungo due pagine scritte in maniera fitta, che è, per certi versi, il criterio di “chiarezza” che si prevede quando si fanno i referendum.
Parliamo di un tema storico, dibattuto anche ai tempi di Falcone e Borsellino.
E oggi in molti usano proprio le parole di Giovanni Falcone (a torto) per cercare di dimostrare che lo stesso fosse totalmente favorevole alla separazione delle carriere quando in realtà teorizzava la necessità di una più accentuata specializzazione del Pm nella direzione della Polizia giudiziaria, rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del ’98. Un passaggio che non passa per forza dalla separazione delle carriere all’interno della magistratura.
Chiarito l’equivoco va ricordato che al momento la legge consente ai magistrati di lavorare per un periodo come pubblici ministeri e poi come giudici (o viceversa), senza vincoli di tempo.
La separazione delle carriere di fatto l’ha già prevista la legge di ordinamento giudiziario del 2007, firmata dall’allora ministro del centrosinistra Mastella con qualche modifica alla precedente legge delega del suo collega di centrodestra Castelli.
Sono già presenti forti limiti e vincoli. Chi vuole passare da pm a giudice, infatti, deve cambiare regione e, qualora volesse tornare a svolgere il ruolo di pm, lo si può fare ma perdendo anni di specificità e titoli, rinunciando a propositi carrieristici.
Ma allora quali saranno gli effetti della separazione delle carriere?
I promotori di questa riforma affermano che la contiguità tra giudici e pubblici ministeri condizionerebbe i primi nei processi, minando la loro terzietà e imparzialità.
In realtà con la Riforma si allontanerebbe il Pubblico Ministero dalla cultura della giurisdizione e della terzietà, fondata sulla ricerca della verità, ovvero la consapevolezza di dover cercare e utilizzare, per le sue iniziative e valutazioni, anche le prove potenzialmente favorevoli agli indagati.
Il Pm verrebbe schiacciato verso un’attività di polizia e diverrebbe una sorta di braccio armato dell’esecutivo e aprendo un’autostrada al controllo della politica sulla magistratura. Il rischio pericolosissimo è quello che gli uffici del pubblico ministero diventino potenti braccia armate del Governo e di quel potere politico che, così come previsto nella riforma della giustizia Cartabia, avrebbe addirittura il potere di dettare criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale agli uffici di Procura. Una combinazione che limiterebbe il principio costituzionale dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.
Di fronte a questo obbrobrio va ricordato che l’“ordine giudiziario”, unico fra pm e giudici, è sancito dalla Costituzione. E la Costituzione non può essere cambiata con referendum abrogativi, ma con un’eventuale riforma costituzionale.
E’ evidente che dietro la separazione delle carriere, vi siano importanti interessi di chi vuole delineare una figura del pubblico ministero più vicina al potere esecutivo e consolidare spazi di impunità per i potenti.
Quesito 4: valutazione dei magistrati con la partecipazione dei laici.
Il quesito, con scheda grigia, vorrebbe abolire la norma che prevede la non partecipazione dei componenti laici (avvocati e professori universitari) dei Consigli giudiziari alle deliberazioni riguardanti lo status dei magistrati ordinari.
Quindi i promotori vorrebbero che i laici abbiano la stessa competenza dei togati, vale a dire una competenza piena e paritaria, non limitata – come oggi – alle materie organizzative, ma estesa anche alla formulazione dei pareri sulla professionalità dei magistrati.
Il tema è delicato ed è stato denunciato da vari magistrati (Di Matteo, Gratteri, Scarpinato, Ardita, Tescaroli ecc). Proprio il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo aveva spiegato i rischi contenuti nel quesito nel libro scritto con Saverio Lodato, “I nemici della giustizia”: “C’è il rischio che l’avvocato, che la mattina ha difeso l’imputato di strage, di omicidio o di qualunque altro reato dal pubblico ministero che in aula rappresenta l’accusa, nel pomeriggio, in sede di consiglio giudiziario, dovrebbe contribuire a rendere il parere per la valutazione di professionalità del suo contraddittore, del pubblico ministero. L’avvocato, che il giorno dopo in un importante processo aspetta il verdetto della corte che dovrà giudicare se il suo assistito è colpevole o innocente, il pomeriggio precedente, facendo parte del consiglio giudiziario, avrà contribuito a formulare il parere di professionalità sul presidente di quella stessa corte. Si tratterebbe di un approdo destinato a suscitare discussioni e controversie. Ad avvocati che esercitano la professione in un distretto di Corte d’appello (i consigli giudiziari sono presso ogni distretto di Corte d’Appello) sarebbe affidato un ruolo attivo nel redigere pareri su magistrati che incontrano quotidianamente nel loro lavoro come controparti o come decisori di cause da loro patrocinate”. Poi ancora aveva aggiunto: “Non si tratta di sfiducia preconcetta nei confronti dell’avvocato che fa parte del consiglio giudiziario. Ma sarebbero possibili, o sospettabili, ostilità o, al contrario, indebite compiacenze. Comunque sia, sul compito difficile e delicato di valutare la professionalità dei magistrati potrebbero addensarsi sospetti capaci di inquinare le determinazioni del Consiglio superiore e di privare della necessaria serenità, nel loro lavoro quotidiano, i magistrati destinatari dei pareri”. Per Di Matteo sarebbe stato diversamente utile “il riconoscimento di un ampio diritto di tribuna dei laici nei consigli giudiziari, degli avvocati innanzitutto, inteso come diritto di parlare dalla tribuna, di fornire un fattivo contributo di conoscenze per la redazione dei pareri”.
Quesito 5: abolizione della raccolta firme per le elezioni del Csm. Nelle intenzioni dei promotori, lo scopo del quesito referendario (scheda verde) sarebbe quello di indebolire le correnti eliminando l’obbligo di raccogliere almeno 25 firme per presentare le candidature di magistrati per le elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura. Questo quesito più che preoccupante appare inutile e viene fatto passare come lo strumento che scongiurerà il grave pericolo del correntismo nella magistratura.
La verità è che nel caso in cui a vincere fosse il sì, non verrebbero attaccate le carriere fatte a tavolino, in quanto le correnti, nella seconda fase, cioè quella delle elezioni dei togati, continuerebbero ad incidere. Basti pensare che con l’attuale sistema elettorale per eleggere un candidato ci vogliono, a seconda della categoria di appartenenza, almeno 500 voti per eleggere un giudice, circa 1.000 per eleggere un magistrato del pubblico ministero e quasi 2.000 per eleggere un magistrato di legittimità su un corpo elettorale di meno di diecimila elettori. Se l’obiettivo è quello di favorire candidature del tutto libere, certo non erano le 25 firme o meno che cambieranno il destino di un candidato.
Per tutti questi motivi, dunque, ribadiamo il nostro “No” a tutti i punti proposti con questo “Referendum dell’Ingiustizia” voluto dai poteri forti. E siamo certi che, come avvenne per il referendum della Costituzione, il popolo avrà la lungimiranza per capire e comprendere la posta in gioco, dove a rischio è anche il futuro della nostra democrazia.
Tratto da: Animafiaduemila
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