Di Coniare Rivolta (collettivo di economisti)
Il grido di dolore di Enrico Preziosi, il padrone di Giochi Preziosi, ha commosso tutti: i regali di Natale dei nostri bambini sono a rischio, bloccati nei porti cinesi dalla richiesta di un balzello che il povero imprenditore proprio non si aspettava. Scorrendo l’intervista, sorge però qualche dubbio circa la buona fede del nostro Babbo Natale incagliato in Cina: già, cosa ci fanno in Cina i prodotti di un’azienda italianissima? E perché questo accorato appello rivolto al nostro Governo?
Nella stessa intervista, Preziosi ci informa che il 95% della sua produzione è delocalizzata in Cina. Come la gran parte delle aziende italiane medie e grandi, anche Giochi Preziosi ha dunque delocalizzato la quasi totalità della produzione in un Paese che offriva grandi opportunità di profitto: un costo del lavoro molto basso, tasse e tributi contenuti da una politica di apertura portata avanti dalla Cina in alcune zone del Paese esposte al commercio internazionale, e la garanzia della totale libertà di circolazione delle merci, che consente ai vari Preziosi di tornare poi in Italia, e in Europa tutta, a vendere le proprie merci prodotte altrove. Il fenomeno delle delocalizzazioni è un mondo meraviglioso, per gli imprenditori. L’altra faccia di questo fenomeno, il costo delle delocalizzazioni, la pagano i lavoratori italiani – che perdono i posti di lavoro spostati in Cina – e l’Italia tutta, che oltre a sperimentare una progressiva desertificazione industriale vede erodere anche la base fiscale di questi colossi industriali il cui baricentro produttivo fuoriesce dal Paese. L’affare delle delocalizzazioni, dunque, lo ha fatto Preziosi, attratto dalle condizioni offerte (in questo caso) dalla Cina, mentre lo Stato italiano ed i lavoratori del nostro Paese ne hanno pagato il costo.
Cosa ha rotto le uova nel paniere di Preziosi? Fondamentalmente due fenomeni relativamente recenti. Da un lato la Cina sta sperimentando un progressivo aumento dei salari medi che non si è arrestato neanche con la pandemia: l’impronta socialista che caratterizza l’organizzazione economica di quel Paese ha garantito, pur con molteplici contraddizioni che non possiamo qui affrontare in maniera esaustiva, un inesorabile miglioramento nelle condizioni di vita della popolazione. Se migliorano le condizioni di vita del popolo cinese, peggiorano le condizioni di profitto delle imprese straniere (come Giochi Preziosi) che proprio sui bassi salari cinesi puntavano, quando hanno delocalizzato. Ecco il paradosso generato dalle delocalizzazioni in un Paese socialista: mentre, anche per effetto della desertificazione industriale e delle politiche neoliberiste imposte negli ultimi trent’anni, i salari italiani (da cui Preziosi e compagnia rifuggivano) si stanno abbassando progressivamente verso ‘livelli cinesi’, si sarebbe detto un tempo, i salari dei cinesi crescono erodendo quote di profitto delle multinazionali.
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Come se non bastasse, un ulteriore fattore compromette la profittabilità delle multinazionali estere impiantante in Cina: i costi di trasporto dei container dalla Cina è aumentato di circa sei volte per il combinato disposto di maggiori tasse imposte dal Governo cinese e maggiori tariffe richieste dai grandi gestori, spesso pubblici, dei porti cinesi. In altre parole, il Governo cinese – dopo aver attratto molte multinazionali estere con condizioni favorevoli – inizia a chiedergli il conto: quello che ogni cittadino vorrebbe veder fare al proprio Stato. Apriti cielo: il povero Preziosi, che in Cina aveva trasferito la produzione proprio per via dei bassi costi, ora è in crisi. E la sua reazione merita una riflessione politica.
Preziosi, infatti, rivolge il suo accorato appello al Governo italiano, chiedendogli di favorire il cosiddetto reshoring, una parola complicata per un concetto molto semplice: ora che i lavoratori italiani sono ridotti alla fame, cioè sono tornati ad essere competitivi a livello internazionale, il dinamico imprenditore vorrebbe riportare la produzione in Italia. Potrebbe farlo in ogni momento, ovviamente, ma lui pretende un aiutino dal Governo. Lui, che ha incassato tutti i profitti della delocalizzazione imponendo all’Italia i costi economici, fiscali e sociali della sua scelta, adesso vorrebbe essere pagato (già, questo chiede: decontribuzioni e sconti fiscali in patria) per tornare a produrre in Italia. L’idea che i padroni possano delocalizzare a piacere la produzione per inseguire il profitto – un’idea che è alla base dell’architettura istituzionale dell’Unione europea, fondata sulla libertà di circolazione di merci e capitali – è già di per sé vergognosa, ma pensare che lo Stato debba non solo lasciarli fare ma anche incentivarli, magari tagliando imposte e diritti dei lavoratori, rendendo sostanzialmente le condizioni dei lavoratori italiani peggiori di quelle cinesi, è grottescamente mostruoso, ma è il vero volto dell’imprenditoria, quello reale e concreto che scandisce la vita economica del Paese. In altri termini, dopo aver delocalizzato la produzione all’estero, i capitalisti come Preziosi vogliono ora ricattare lo Stato chiedendo sgravi fiscali e aiuti di vario genere per tornare a sfruttare il lavoro italiano, reso povero anche dalle loro scelte industriali.
L’appello di Preziosi, che non è certo un caso isolato ma ben rappresenta una parte consistente del capitalismo italiano, ci impone dunque una riflessione politica di carattere generale. Gli sfruttatori non hanno confini: non li hanno quando delocalizzano, e non li hanno quando decidono di tornare in patria a sfruttare il lavoro povero che le loro delocalizzazioni hanno contribuito a creare. I confini, dunque, quegli stessi confini che l’Italia e l’Europa usa contro i lavoratori migranti per costringerli ad entrare come schiavi nella nostra economia, possono essere usati – al contrario – contro quegli sfruttatori. Possono essere usati imponendo, in Italia, un salario minimo che garantisca una vita dignitosa – per evitare che le imprese di tutto il mondo inizino a delocalizzare per sfruttare il nostro lavoro povero ma qualificato; possono essere usati per favorire le imprese pubbliche in settori strategici, creando occupazione e favorendo lo sviluppo industriale del Paese; possono essere usati per limitare la circolazione delle merci e dunque impedire il ricatto al Preziosi di turno, che produce in Cina i giocattoli venduti in Italia. I confini, insomma, sono uno strumento politico: gli sfruttatori li usano per piegare i lavoratori, gli sfruttati possono usarli come argine alla sete di profitto delle multinazionali.
Tratto da: L’Antidiplomatico