di Davide de Bari
Per l’omicidio si scava sui rapporti mafia-eversione nera
“Piersanti era una persona serena, che amava la vita, sempre attenta a non sacrificare alla politica gli spazi di vita familiare. Era legatissimo alla moglie, ai figli, ai suoi genitori. Era, in definitiva, una persona normale. Questa è una cosa che potrei dire di Piersanti, come di altre persone che sono state uccise perché difendevano la legalità e che ho conosciuto, da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a Rocco Chinnici: persone normali che amavano la vita, il futuro, con un forte senso della propria dignità e del ruolo che rivestivano, che non volevano piegarsi alla sopraffazione, alla prepotenza mafiosa, alla minaccia della violenza”. Con queste parole, tempo addietro, l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricordava suo fratello Piersanti, presidente della Regione Sicilia, ucciso in un agguato in via Libertà a Palermo il 6 gennaio 1980. Quel giorno il politico democristiano girava senza scorta. Era in macchina quando un giovane, a viso scoperto, si avvicinò esplodendo alcuni colpi d’arma da fuoco. Mattarella, colpito, si accasciò sul suo posto di guida; la moglie, disperata, gli prese la testa fra le mani mentre il killer “dagli occhi di ghiaccio” e la “camminata ballonzolante” si dileguava. A tirarlo fuori dall’auto fu suo fratello Sergio, poi immortalato nella celebre foto di Letizia Battaglia. Il presidente fu portato in ospedale, ma poco dopo morì. Aveva solo quarantaquattro anni.
Un forte impegno politico
Per comprendere i motivi per cui Mattarella era scomodo basta rivedere quella che è stata la sua storia politica in Sicilia. Come descriveva nel gennaio 1980, pochi giorno dopo il delitto, Marcello Cimino, cronista de “L’Ora” di Palermo si tenne “sempre discosto” dalla “tradizione clientelare, paternalistica e ministeriale del partito democristiano, il quale andò crescendo in Sicilia dopo il 1948 sempre più abbracciato al potere”. Saverio Lodato, nostro editorialista, ha più volte ricordato come “fin dagli esordi preferì frequentare la biblioteca comunale e i circoli dell’associazione cattolica piuttosto che i comitati elettorali dove non era difficile imbattersi nei capimafia della provincia trapanese”.
Mattarella era stato allievo di Giorgio La Pira e di Aldo Moro e si mise contro i potenti colleghi di quella parte di Dc collusa con la mafia: Vito Ciancimino e Salvo Lima, uomini di Andreotti in Sicilia che garantirono i voti al partito.
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In Sicilia vi fu un cambiamento epocale quando, dopo la sua elezione a presidente nel 1978, trovò anche l’appoggio del Pci. Addirittura, durante una conferenza regionale sull’agricoltura, nel febbraio del 1979, non difese l’assessore della sua giunta dalle accuse di collusione con la mafia, mosse da Pio La Torre (responsabile nazionale dell’Ufficio agrario del Pci), ucciso in seguito da Cosa nostra il 30 aprile 1982. Fu in quell’occasione che ribadì come i contribuiti agricoli dovevano essere gestiti in modo trasparente, come anche tutti gli altri soldi pubblici. Gesti in qualche modo rivoluzionari in un’epoca in cui vi era un fortissimo asse mafia-politica. “Esiste una città che non sia stata deturpata, in questi ultimi anni, dalla speculazione edilizia e dall’ingordigia del consumismo? – disse Mattarella sul famoso ‘sacco di Palermo’ – L’ambiente sociale, culturale e urbanistico dei nostri centri urbani ha subito, in queste ultime generazioni, un notevole impoverimento dei suoi originari contenuti, ormai difficilmente recuperabili. La nostra Palermo è, purtroppo, in questo quadro, non seconda a nessuno”.
Celebre furono anche le sue parole, desiderose di cambiamento, dopo il ritrovamento di Aldo Moro, in via Caetani, il 9 maggio 1978. “Occorre liberare la Dc dall’arroganza o anche dalla semplice ansia del potere, ripristinando a pieno il nostro senso dello Stato, il rispetto della cosa pubblica – disse – Occorre valere, come ha detto Aldo Moro, per il servizio reso e non per lo sviluppo dei favori delle clientele”.
Era Piersanti Mattarella il candidato ideale a diventare il segretario nazionale della Dc. Alla fine del 1979 andò a Roma per incontrare allora ministro dell’Interno e militante dello stesso partito Virginio Rognoni per parlare a proposito delle “mele marce” presenti nella Dc siciliana. Un colloquio così delicato che alla sua conclusione, il presidente della Regione Sicilia disse al suo capo di Gabinetto, Maria Grazia Trizzino quelle che diventarono le sue ultime parole: “Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello. Questa mattina sono stato con il ministro Rognoni e ho avuto con lui un colloquio riservato sui problemi siciliani. – continuava – Se dovesse succedere qualcosa di molto grave alla mia persona si ricordi di questo incontro con il ministro Rognoni, perché a questo incontro è da collegare quanto grave di potrà accadere”. Di quell’incontro, però, Rognoni, interrogato al processo, non raccontò nulla di importante. Qualche giorno dopo il 6 gennaio del 1980 Mattarella fu ucciso.
Cosa si nasconde dietro l’omicidio?
Ad indagare sulla morte di Mattarella fu anche Giovanni Falcone che in un’audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia del 3 novembre 1988, desecretata il mese scorso, delineò i contorni di una “convergenza di interessi” tra Cosa nostra e segmenti eversivi di estrema destra. Una pista che, a detta del giudice, avrebbe permesso di “rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”.
Durante l’audizione Falcone sottolineò l’esistenza di “collegamenti e coincidenze” tra le indagini sull’omicidio Mattarella e quelle riguardanti la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1989, dove fu condannato con sentenza passata in giudicato anche il Nar Valerio Fioravanti. La vedova di Mattarella identificò il killer proprio in “Giusva” Fioravanti, che fu processato per l’omicidio assieme a Gilberto Cavallini, accusati, ma non bastò per arrivare ad una condanna. Entrambi, infatti, furono assolti in via definitiva, anche su richiesta degli stessi magistrati. Diversamente per l’omicidio, come mandanti, furono condannati i boss di Cosa nostra Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci.
E quell’insofferenza di Cosa nostra nei confronti dell’allora presidente della Regione era qualcosa di conosciuto anche dai più alti vertici del potere.
Basti pensare che, come evidenziato nel processo per associazione mafiosa contro Giulio Andreotti, (il cui reato fu riconosciuto fino al 1980 ma prescritto), venne dimostrato che il sette volte presidente del consiglio prese parte a due incontri con il principe di Villagrazia, Stefano Bontade. I giudici, nelle motivazioni della sentenza, rilevarono la contrarietà di Andreotti all’esecuzione del delitto, tuttavia scrissero nero su bianco che dopo l’omicidio il “divo Giulio”“non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è sceso in Sicilia per chiedere conto al Bontade della scelta di sopprimere il presidente della Regione”.
La nuova indagine che segue la “pista nera”
Dopo il processo sull’omicidio del Presidente della Regione Siciliana i magistrati hanno costantemente cercato di colmare il vuoto di verità che era rimasto sui killer. Fermo restando la matrice mafiosa quella sui “neri” è una pista che non è mai stata veramente abbandonata. E’ da qui che sono ripartiti i magistrati palermitani, il procuratore aggiunto Salvatore De Luca, e l’allora sostituto Roberto Tartaglia, guidati dal procuratore capo Francesco Lo Voi, un paio di anni fa riaprendo le indagini sul delitto. L’attenzione degli investigatori si è concentrata su vari aspetti come gli interrogatori di Falcone ad Alberto Volo, fascista vicino ai Nar e a Terza posizione, che gli raccontò che l’eliminazione di Mattarella era stata voluta da Licio Gelli, il capo della loggia P2, per fermare l’apertura a sinistra.
Il mese scorso i magistrati avevano chiesto agli specialisti del Ros e del Racis dei carabinieri di mettere a confronto una delle pistole utilizzate dal killer neofascista Gilberto Cavallini per uccidere il magistrato Mario Amato (a Roma, il 23 giugno 1980) con i proiettili sparati il giorno dell’Epifania 1980 a Palermo. Un’analisi che non ha permesso di risolvere gli interrogativi.
Per gli esperti del Racis dei carabinieri i proiettili che hanno ammazzato Mattarella sono “coincidenti” con la cobra usata dai Nar, ma la certezza non si può avere perché, come hanno raccontato sull’Espresso Lirio Abbate e Paolo Biondani, i proiettili estratti dal corpo di Mattarella si sono ossidati a causa del cattivo stato di conservazione.
La Procura vorrebbe comunque tentare altri esami. E’ stato anche riaperto il fascicolo sull’omicidio di Michele Reina, segretario provinciale dalle Dc, ucciso il 26 marzo 1979. Anche in quell’occasione fu usata una Colt calibro 38 e l’ipotesi è che l’uomo che ha sparato a Piersanti Mattarella possa essere anche lo stesso che uccise Reina.
Lunga è anche la lista di prove disperse e smarrite a cominciare dal guanto sequestrato dalla Scientifica nell’auto dei killer, il giorno dell’omicidio.
Altro mistero riguarda la macchina 127 bianca utilizzata dai killer: l’auto risultava rubata e con una targa falsa. Targa composta da due pezzi di targhe diverse assemblati tra loro. Caso vuole che altri pezzi di targa, compatibili con quelli della Fiat, verranno trovati due anni dopo in un covo di Terza Posizione a Torino. “Quanto rinvenuto – scriverà in un dossier tra gli atti di inchiesta il magistrato Loris D’Ambrosio, esperto di terrorismo e all’epoca in servizio all’Alto commissariato antimafia – va sottoposto ad accurato accertamento, poiché anche la sola coincidenza ha aspetti di stupefacente singolarità”. Ma un accertamento, come ha ricordato Giovanni Grasso, oggi portavoce del Quirinale, nel suo libro “Mattarella. Da solo contro la mafia” (Edizioni San Paolo) non è mai stato fatto. Misteri su misteri.
Ciò che è certo che dietro l’omicidio del presidente della Regione Sicilia vi sono stati diversi interessi. Forse quegli stessi “ibridi connubi” a cui faceva riferimento Falcone parlando dei rapporti tra criminalità organizzata, centri di potere extra-istituzionali e settori deviati dello Stato.
Piersanti Mattarella si era frapposto a questo Sistema, dando vita ad una rivoluzione politica, sociale e cultuale. Arrivando a pagare il prezzo più alto: la vita.
Fonte: Antimafiaduemila
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