di Giorgio Bongiovanni
Quando un magistrato si trova ad intervenire nel dibattito pubblico, ricordare la storia, raccontare fatti, anche gravi, e riflettere su di essi, può farlo a patto che si tenga “conto delle ricadute che hanno le nostre dichiarazioni sia nel dibattito pubblico che nei rapporti tra le Istituzioni“. E’ questo il concetto che, in nome dell’equilibrio e della misura, alti vertici della magistratura di questo Paese, disgraziato e bellissimo allo stesso tempo, stanno cercando di far passare da qualche tempo a questa parte. Così era intervenuto le scorse settimane l’Associazione Nazionale Magistrati e così è intervenuta Mariarosaria Guglielmi, Segreteria generale di Magistratura democratica, sulle pagine de Il Foglio in un articolo in cui si critica il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, per essere intervenuto a “Non è L’Arena” ed aver raccontato l’evoluzione dei fatti rispetto alla mancata nomina al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). La vicenda è nota e riguarda da vicino il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, su cui abbiamo scritto numerosi articoli in questi giorni.
E’ evidente che alla Guglielmi, le parole di Di Matteo non piacciono proprio. Non da oggi, ma da sempre. Era già accaduto in occasione della presentazione della candidatura di Di Matteo al Consiglio superiore della magistratura. Allora non erano piaciute le parole del magistrato in cui si faceva riferimento alle degenerazioni clamorose del correntismo.
Riflessioni che traevano spunto su fatti storici, a cui si aggiungevano dei fatti sconcertanti che emergevano dall’inchiesta di Perugia su Palamara, che hanno travolto mezzo Csm.
I fatti raccontati dal magistrato vengono tramutati in “suggestioni”, le parole dette lette come un tentativo di condizionare l’opinione pubblica. Anche da queste considerazioni passa l’isolamento e la delegittimazione di un giudice e la Segreteria generale di Magistratura democratica dovrebbe saperlo. Basta andare a rivedere la storia della sua corrente che in maniera farisaica ed ipocrita tentò di distruggere la carriera di Giovanni Falcone quando era in vita.
A prescindere dai dati che vi sono stati, e vi sono ancora oggi, magistrati validi e fortemente impegnati nella lotta contro mafia e corruzione, che aderiscono o hanno aderito a questa corrente, noi non dimentichiamo ciò che avvenne alla fine degli anni Ottanta.
E’ impresso nella storia che il 19 gennaio 1988, quando c’era da scegliere il successore di Antonino Caponnetto alla guida dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, tra Giovanni Falcone ed Antonino Meli, dopo una discussa votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. E proprio Magistratura Democratica, con l’eccezione di Gian Carlo Caselli che votò a favore di Falcone, ebbe un peso di rilievo in quella scelta. E tempo dopo, quando Falcone accettò l’incarico al Ministero di Grazia e Giustizia che fu proposto da Martelli, sempre altri membri di Magistratura dissero che Falcone si era “venduto al potere politico”.
Ancora rimbombano nell’atrio di Casa Professa le parole che Paolo Borsellino, in occasione del trigesimo della morte dell’amico fraterno, disse il 25 giugno 1992: “Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli (…) Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli“.
E’ questa la realtà dei fatti. Il Csm di allora, complice anche Md, bocciò, ostacolò e umiliò all’inverosimile la carriera di Giovanni Falcone, così come fece ogni qualvolta bocciò la sua candidatura ad incarichi superiori.
Nel recente passato una figura di spessore come quella di Antonio Ingroia, storico membro di Md, lasciò la magistratura proprio perché colpito in prima persona da quell’onda asfissiante ed ostile messa in piedi dalla sua stessa corrente contro quei magistrati che “parlavano troppo”. Magistrati che per difendersi dalla delegittimazione, dalla ridicolizzazione e dalla persecuzione, messa in atto da uomini di Stato e non, si trovavano a dover ricorrere ad interviste ed apparizioni televisive, così come era stato per Falcone e Borsellino.
Nonostante i ripetuti attacchi subiti venivano, sempre e comunque, bacchettati dal Consiglio superiore della magistratura e da correnti come quella di Md. Oggi, come allora, la storia si ripete, addirittura con un commento ufficiale sulle pagine di un giornale come il Foglio che nel corso della propria storia ha sempre ridicolizzato, offeso e lapidato con i propri articoli i magistrati in trincea nella lotta alla mafia.
Mariarosaria Guglielmi, dall’alto del suo scranno, con quell’articolo emette una sentenza contro Nino Di Matteo portando avanti un modello distorto di “dipendenza della magistratura”.
Quando un magistrato, condannato a morte, si trova colpito da più parti, così come è avvenuto negli ultimi anni, come nella vicenda Bonafede, cosa dovrebbe fare secondo la Segretaria generale di Md?
La storia insegna che proprio in quel momento, quando si è lasciati soli e delegittimati, che il magistrato rischia ancora più concretamente la propria vita. E queste non sono suggestioni.
Per fortuna, accanto a correnti obsolete e farisaiche, le istituzioni vedono anche la presenza di numerosi magistrati indipendenti e correnti progressiste, come quella di Autonomia & Indipendenza, capaci di offrire una nuova proiezione ed un sostegno a quei tanti giovani magistrati che chiedono trasparenza, libertà e tutela di fronte all’arroganza dei parrucconi che vorrebbero una magistratura sempre più burocrate e subordinata. Di questo c’è bisogno per un rinnovamento e permettere loro di seguire concretamente le orme di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Tratto da: Antimafiaduemila