Mafia, clan Gambino visita la Sicilia per maxi-riciclaggio

Mafia, clan Gambino visita la Sicilia per maxi-riciclaggio

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Di Jamil El Sadi

Lo scorso martedì 2 febbraio i Ros dei carabinieri hanno condotto un’operazione che ha portato all’esecuzione di 23 fermi, emessi dalla DDA di Palermo, i cui indagati rispondono a vario titolo di Mafia, estorsione e favoreggiamento aggravato. L’inchiesta, denominata “Xydi”, ha svelato importanti risvolti dell’organigramma di Cosa nostra e della Stidda (organizzazioni criminali operanti tra l’agrigentino ed il trapanese). L’operazione ha, però, anche una pagina più arcana, una sorta di “lato oscuro della Luna”: la presenza del clan Gambino nel territorio siciliano.

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Ambasciatore dei Gambino in Sicilia per affari


Il collegamento è stato registrato nell’aprile del 2019, quando un emissario della famiglia mafiosa di New York venne a Favara (provincia di Agrigento), in cerca di una grande azienda in crisi. Voleva fare “una cosa fraudolenta”, ha spiegato ai siciliani. Una maxioperazione di riciclaggio con cui avrebbe immesso ingenti quantitativi di denaro nell’impresa per poi portarla al fallimento facendo così scomparire milioni di euro. “I soldi vengono da Singapore – dicevano i mafiosi agrigentini che si confrontavano sulla proposta dopo l’incontro -. Ci lasciano il 20 per cento”.
Ma quando venne in Sicilia (20 aprile 2019) l’italo americano non era solo: ad affiancarlo c’erano anche due russi. Il suo contatto locale era l’imprenditore favarese Giuseppe Pirrera, il cui nome compare fra gli arrestati del blitz di martedì scorso. Gli inquirenti sono riusciti a ricostruire la vicenda solo pochi giorni dopo l’incontro quando Giancarlo Buggea (mafioso agrigentino) parlò della proposta americana con il boss palermitano Simone Castello, ex “postino” di Bernardo Provenzano. Trattasi di un colloquio avvenuto presso lo studio dell’avvocatessa Angela Porcello, che attualmente si trova in carcere rea di associazione mafiosa. “Arrivo là e ci trovo a un picciotto, camicia aperta, e altri due erano fuori, erano russi – disse Buggea -. Dico: ‘Chi sono queste persone?’ No, dice, sono russi, uno parla l’inglese, amici miei. C’era pure uno conosciuto, un castrofilippese… di Castrofilippo, c’è gente buona in America”. Chi fosse veramente l’inviato dei Gambino ancora non è dato sapere, nonostante nelle intercettazioni sia emerso il nome del newyorchese Dominique D’Acquisto. Certo è che il procuratore aggiunto Paolo Guido e i sostituti Claudio Camilleri, Geri Ferrara e Gianluca De Leo stanno cercando di ricostruire la missione dell’emissario americano. Un individuo che, stando alle dichiarazioni di Buggea, avrebbe affermato: “In Canada ci sono i calabresi, a New York erano forti dei napoletani, poi è morto uno… per adesso ci siamo noi, come statuto e cosa”.
Tornando all’operazione di riciclaggio, dalle intercettazioni è emerso che il “piano fraudolento” si trovava in uno stadio avanzato. I siciliani, infatti, avevano trovato anche un imprenditore disposto a “sacrificarsi” per concludere l’affare. “Qualcuno deve cadere”, dicevano i mafiosi, intendendo dire che era necessaria una figura che fosse disposta a farsi arrestare per il crack dell’azienda. Così da non destare sospetti e rendere il tutto “normale”. “Un tale Lupo – hanno detto gli inquirenti –, una persona affidabile, che aveva palesato la disponibilità ad essere coinvolto nell’operazione a fronte di un guadagno personale di qualche milione di euro”. A supportare le dichiarazioni dei magistrati, vi sono quelle del Buggea secondo cui “quel caruso” gli avrebbe detto “Io tre anni me li vado a fare se so che arrivano due, tre milioni”.

Gli Inzerillo sulla scena


Ad aggiungersi al panorama finora descritto vi è la famiglia Inzerillo, connessa ai Gambino da legami di parentela. A tirarla in causa è stato il boss palermitano Simone Castello. Prima di accettare il crac, infatti, volle saperne di più circa l’emissario dei Gambino interfacciandosi con Franco Inzerillo, alias “U truttaturi”, fratello di Totuccio (ucciso nell’81). I due clan, fino agli anni ’80, hanno rappresentato una compagine storica per le organizzazioni criminali fra Sicilia e Stati Uniti. Collegamento che venne spezzato da Totò Riina durante la guerra di mafia agli inizi degli anni Ottanta.
Oggi, a distanza di quasi quarant’anni, quell’asse sembra essere tornato in auge, rappresentando nuovamente, come un tempo, uno dei più terrificanti coacervi criminali.
Nella “cosa fraudolenta” gli Inzerillo non solo erano i garanti da interpellare. Dalle intercettazioni è anche emerso il nome del nipote prediletto di Totuccio Inzerillo, il palermitano Sandro Mannino, in qualità di custode dei segreti finanziari della famiglia (arrestato dalla squadra mobile nel luglio 2019). Sembrerebbe, inoltre, che avesse anche un ruolo nella vicenda, ma su una rotta balcanica riguardante il Kosovo.
Infine, i mafiosi siciliani, in riferimento ai cugini americani, dicevano: “Hanno bisogno di noialtri, senza noialtri non possono fare niente”. “Sono gente seria – aggiunse Buggea – non possono cugliuniare loro, come non potremmo cugliuniari noi”.

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“Ambasciator non porta pena”

Analizzando a freddo la vicenda, dunque, si conferma l’interesse della mafia nello sfruttamento delle crisi. Siano esse riferite ad un’azienda, così come ad un governo frastornato dagli effetti della pandemia. Pericolo inasprito in modo particolare dalla produzione di “una legislazione di emergenza che ha privilegiato l’urgenza e l’ampliamento della discrezionalità a scapito dei controlli, aprendo così pericolosi ed ampi varchi alle manovre corruttive e truffaldine nonché alle infiltrazioni mafiose”, citando le parole pronunciate dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, durante l’apertura dell’anno giudiziario.
Evidentemente, la crisi economica dell’Italia e, in modo particolare, del Meridione rappresenta per le famiglie mafiose un lotto su cui investire. Ma d’altronde “ambasciator non porta pena” verrebbe da dire, perché, noto l’ottimo status di salute dell’asse Gambino-Inzerillo, ora è compito del “non governo” tenerlo bene a mente affinché la “pena” non diventi “danno”.

Tratto da: Antimafiaduemila

Giustizia Italia