Mafia, potere e giustizia. Di Matteo intervistato dal magazine spagnolo Jot Down

Mafia, potere e giustizia. Di Matteo intervistato dal magazine spagnolo Jot Down

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“La mafia ha bisogno della politica come noi abbiamo bisogno dell’aria che respiriamo”

Di Giorgio Bongiovanni, tratto da: Antimafiaduemila

Nino Di Matteo, magistrato palermitano e ora consigliere togato al Csm, ha rilasciato un’ampia intervista al giornalista Alejandro Luque per il magazine spagnolo jotdown.es. Un dialogo “a tu per tu” in cui il pm, tra i principali in prima linea nella guerra alla mafia, racconta di sé, della sua esperienza con la toga che veste dal 1991, del sistema di giustizia in Italia, dei processi ai quali ha partecipato come parte inquirente e del mutamento delle mafie nel corso degli anni. L’intervista inizia con Leonardo Sciascia, il celebre scrittore siciliano, di cui Di Matteo è grande estimatore. Il giornalista cita la “linea della palma” che “va al nord” di Sciascia – metafora intesa come l’Italia che stava diventando Sicilia – e quindi come anche la mafia (Di Matteo puntualizza che la Sicilia non è solo terra di mafia, ma anche di reazione alla mafia) stava in realtà divenendo questione nazionale. “Ciò è stato possibile grazie soprattutto alla superficialità con cui è stata affrontata la questione, sottovalutata anche dalla politica nazionale”, ha spiegato Di Matteo. “Oggi, però, penso che non ci sia spazio per sostenere che si tratti di un problema di sottovalutazione”. “Purtroppo anche nel nord industriale c’è un consenso, non popolare, ma una ricerca della mafia da parte di un tessuto economico malato che non esita a rivolgersi ad essa per essere rivitalizzato con soldi sporchi. Pecunia non olet”. Per questo secondo Di Matteo, parlare di quattro mafie è un po’ “anacronistico”. Il magistrato ha parlato di “sistema integrato” che “si è tortuosamente impadronito del tessuto economico e finanziario di questo Paese. E questo è molto pericoloso. D’altra parte, questo fenomeno ha comportato per la mafia la richiesta di non essere molto visibile, per non creare allarme sociale. Ricorre all’omicidio solo quando è necessario, dopo che sono state tentate tutte le altre vie per neutralizzare il pericolo. E questa mafia che si rende invisibile ha, in un certo senso, aperto le porte per entrare nel circuito economico apparentemente legale. Dico che negli ultimi vent’anni le mafie sono state ‘legalizzate’, tra virgolette, attraverso alcune attività imprenditoriali, commerciali, nei settori della grande ristorazione, del turismo, del vino… A volte è difficile distinguerle”, ha affermato Di Matteo. “All’insaputa di noi cittadini, corriamo il rischio di accedere quotidianamente a servizi, negozi e centri commerciali finanziati da capitali mafiosi e che coprono interessi mafiosi. Questo è ciò che dovrebbe angosciarci di più, la scarsa riconoscibilità della folla in questo momento”, ha aggiunto. In questo senso “la politica deve affrontare la situazione con coscienza, ed è lei che deve guidare la lotta alla mafia, non la magistratura o le forze dell’ordine. Nel senso che non solo la politica è il luogo dove si fanno le leggi, ma anche perché, anche nelle sedi locali, spesso si è a conoscenza di interessi economici di stampo mafioso. Anche prima che i giudici o la polizia inizino a indagare. Invece la politica ha scaricato sulla magistratura tutte le responsabilità nella lotta alla criminalità organizzata. Quella parte importantissima dell’attività politica era un’azione di denuncia di fatti e situazioni, ancor prima che fossero sotto l’obiettivo della giustizia”, ha rammentato il consigliere del Csm. “Oggi, invece, il dramma di fondo è che ha fatto un passo indietro, soprattutto quando afferma che, in situazioni del genere, bisogna attendere la sentenza definitiva della magistratura. Si tratta di un pericoloso malinteso, perché rispetto a determinati comportamenti è importante non solo se tali comportamenti costituiscono reato, ma anche se costituiscono un atto da cui possono derivare responsabilità politiche”. Ma la magistratura “arriva solo alla responsabilità penale”, ha spiegato Di Matteo.

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© Imagoeconomica

Collateralismo e controllo politico della giustizia


Sempre riguardo al tema di magistratura e politica, il magistrato ha parlato della tentazione di quest’ultima di controllare la giustizia. “Temo che la tentazione della politica sarà sempre forte e, in un certo senso, inevitabile”, ha affermato. “La magistratura, a sua volta, deve respingere la tentazione, per spirito libero o per ambizione, di essere controllata”. “Per me non è del tutto corretto o esatto parlare di guerra tra politica e magistratura. In realtà la guerra è stata tra quella parte della politica e quella parte della magistratura che fanno parte del sistema, e che trovano in essa una reciproca convenienza; e una parte della magistratura che di fatto, avendo una forte consapevolezza della propria autonomia e indipendenza, con le sue indagini vuole controllare l’esercizio del potere. È molto riduttivo parlare di guerra tra magistratura e politica, così come mi sembra sbagliato parlare di conflitto tra giustizialisti e garantisti”, ha affermato. “Io stesso sono stato definito più volte magistrato giustizialista e populista. Se per giustizialista si intende un magistrato che ritiene che tutti i reati debbano essere perseguiti, e che i processi debbano concludersi non con una dichiarazione di prescrizione o di non azione penale, ma con una sentenza di condanna o di assoluzione, mi ritengo il primo dei giustizialisti. Ma mi sento anche il primo dei garanti, perché credo che al risultato processuale, di condanna o di assoluzione, debba seguire un’accettazione della verità processuale in cui le garanzie di ogni indagato e imputato hanno la massima spiegazione. Penso che dovremmo essere tutti un po’ giustizialisti e un po’ garantisti, entrambi i concetti possono essere integrati”, sostiene il magistrato. Sempre riguardo alla magistratura, Di Matteo ha affermato che “oggi in Italia ha perso molto del suo consenso, della sua credibilità, della sua autorità, perché molti aspetti della vita della magistratura sono stati condizionati da meccanismi politici.
Poi si è verificata una degenerazione del sistema, che ha subito un’eccessiva corsa alla carriera, nell’accesso a posizioni manageriali o semi-manageriali. Negli ultimi anni, alcuni di questi fatti sono emersi grazie alle indagini della magistratura, che hanno rivelato come alcuni componenti del Csm non abbiano deciso chi dovesse essere il capo della Procura di Roma in base al merito, al curriculum o la storia dei candidati, ma sulla base di accordi di natura politica, anche con il contributo di esponenti politici. Tuttavia, credo che con questi eventi abbiamo toccato il fondo. Ma solo chi tocca il fondo può rinascere
”. In questo senso Di Matteo si è detto ottimista perché “convinto che la magistratura sia un corpo in cui c’è una metastasi, ma che è comunque sano. Dobbiamo reagire, non rinnegando le loro grandi colpe: commetteremmo un grave errore se adottassimo una difesa corporativa”, ha puntualizzato. “Serve però una vera e propria operazione, individuando e sanzionando attraverso procedimenti disciplinari i magistrati che si sono comportati indegnamente. E per coloro che hanno commesso un reato, processi di condanna penale”. Di Matteo ha però in seguito espresso orgoglio di ricordare che la magistratura “ha rappresentato, da un lato, il vero baluardo contro i poteri fuorviati della mafia, del terrorismo e dei loro complici”, ha detto Di Matteo rammentando i 28 magistrati uccisi dalle organizzazioni criminali nel nostro Paese. “D’altronde, il lavoro quotidiano dei magistrati è stato determinante per cercare di affermare i principi costituzionali nella vita reale del Paese: l’uguaglianza, la tutela dei minori, il diritto alla salute, dei lavoratori… Ciò è dovuto al coraggio e all’azione nell’interpretazione e nell’applicazione della legge. Quando sento parlare di un attacco all’indipendenza della magistratura, ricordo sempre che la sua autonomia non è un privilegio dei magistrati, è una garanzia per i cittadini. Solo se ogni magistrato sente tale indipendenza, può tutelare i diritti dei cittadini, anche di coloro che non sono graditi al potere politico del momento”. E ancora, Di Matteo è “convinto che i magistrati più giovani sapranno abbandonare questa prassi di degenerazione attuale, di collateralismo con la politica, di quel carrierismo che ha appesantito la magistratura. Oggi molti giovani magistrati sanno che devono recuperare l’etica, anche personale, della lontananza del potere. E lasciate che vi dica una cosa: se non sogniamo il cambiamento, saremo condannati a una lenta morte”, ha concluso.

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© Paolo Bassani

Trattativa Stato-mafia


Il giornalista spagnolo ha poi chiesto a Nino Di Matteo in merito al processo Trattativa Stato-mafia di cui ha rappresentato la parte inquirente in primo grado insieme ai pm Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene.
Partiamo da un dato oggettivo: il processo è stato giornalisticamente definito ‘trattativa’, ma è una definizione impropria. Nel codice penale italiano non è previsto il reato di trattativa. C’è il reato di minaccia al corpo politico dello Stato. In questo caso, abbiamo considerato che, tra il 1991 e il 1994, almeno tre governi che si sono alternati in quel periodo sono stati minacciati di attentati dinamitardi e attentati mafiosi”, ha esordito sul punto Di Matteo. “In altre parole, la strategia di Riina e altri era quella di ottenere alcuni benefici, soprattutto legislativi, mettendo in ginocchio con forza lo Stato, nella speranza – ha spiegato – che lo Stato venisse a negoziare con loro. Il reato attribuito a questi mafiosi era, quindi, una minaccia per l’organismo politico dello Stato. In questo delitto sono accusati alti ufficiali di carabinieri e politici, di aver fatto da ponte tra mafiosi e governo, e di aver comunicato ai mafiosi la richiesta di cessare la loro strategia. In primo grado, dopo cinque anni di udienza, con centinaia di testimonianze, collaboratori di giustizia, decine e decine di ore di intercettazioni telefoniche e ambientali, una sentenza di 5.552 pagine ha condannato tutti gli imputati: non solo mafiosi, ma anche appartenenti a istituzioni e politici. In appello, però, solo i mafiosi sono stati condannati, e i carabinieri sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato”. i carabinieri sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato”. Evidentemente – ha aggiunto Di Matteo – il fatto è stato provato, ma probabilmente non è stata presa in considerazione la frode derivante dall’appartenenza ad un ente. Ma sono orgoglioso che la sentenza abbia portato alla luce fatti che nemmeno un’assoluzione può smentire: che la mafia ha piazzato bombe per sfondare lo Stato, e che una parte di essa ha chiesto ai mafiosi cosa volevano per fermare gli attentati. E un terzo fatto: quando Riina ha capito che una parte dello Stato lo cercava per trovare una soluzione, ha pensato che la strategia della violenza fosse quella giusta. Era necessario che lo Stato si inginocchiasse definitivamente, perché potesse dettare le condizioni. Roma, Firenze, Milano non furono attacchi come quello di Capaci: a Capaci si voleva eliminare un nemico storico della mafia, Giovanni Falcone. Gli altri avevano una finalità diversa, non volevano una vendetta mafiosa: volevano scatenare il panico per ottenere vantaggi. Volevano seminare distruzione e morte tra i comuni cittadini, danneggiare il patrimonio storico-artistico italiano, proprio perché lo Stato aveva iniziato a negoziare”, ha spiegato. “E Riina ha voluto che, in queste trattative, il peso della violenza fosse sempre il massimo. Da questo punto di vista, anche le sentenze che hanno assolto alcuni imputati non possono negare che i fatti siano avvenuti in questo modo. È grave perché mostra come, quando lo Stato scende al livello della mafia, provoca un danno enorme, perché riconosce l’autorità dell’interlocutore. E lo convince ulteriormente che è sulla strada giusta”.

Mafia-potere


Rispondendo a una domanda sull’origine del rapporto tra mafia e potere politico, con riferimento alla strage di Stato di Portella della Ginestra, Di Matteo ha affermato che “è nel dna della mafia, in particolare di Cosa Nostra siciliana, cercare di convivere con il potere ufficiale”. “La considerazione dell’azione mafiosa come semplice accumulazione di ricchezza non è corretta”, ha puntualizzato. “L’esercizio del potere è più importante, e chi vorrà esercitarlo lo farà nonostante, o anche insieme al potere istituzionale. Ciò che è cambiato nel tempo, ne sono convinto, non è la volontà delle mafie di avere un rapporto con la politica: loro hanno quel bisogno come abbiamo bisogno dell’aria che respiriamo o i pesci dell’acqua in cui nuotano. La strategia non è cambiata, solo la tecnica e l’approccio”, ha aggiunto. “Se in passato era più facile ricorrere al rapporto diretto tra mafioso e politico, attraverso incontri, discussioni, a seguito del fenomeno del pentito hanno capito che era troppo rischioso coinvolgere direttamente il politico. A partire dagli anni ’90, queste relazioni sono state caratterizzate dall’intermediazione. Soggetti che possono formalmente avere motivi legittimi per frequentarsi e che fungono da cinghia di trasmissione. In un momento in cui il mafioso, in molti casi, ha cambiato pelle, ha messo a studiare figli e nipoti, li ha trasformati in medici, avvocati, politici, c’è il pericolo che un mafioso acceda direttamente alla gestione pubblica. Bisogna tenere la guardia molto alta senza cadere in generalizzazioni, senza vedere il rapporto con la mafia ovunque. Anche se la cerco sempre. E la politica deve imparare a chiudere la porta in faccia al mafioso, anche se non c’è una sentenza definitiva. Un politico che conosce il territorio, che lo vive, lo sa meglio di chiunque altro con cui non dovrebbe scherzare”. Infine a Di Matteo è stato chiesto se esista una parte di potere intoccabile, se esistano pesi massimi della politica che riescano a sfuggire sempre quando si tratta di rispondere delle loro azioni e responsabilità.

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© Deb Photo

A chi la pensa così, possiamo dire che è molto più difficile perseguire queste persone rispetto a qualsiasi altro cittadino”, è stata la risposta del magistrato. “Ma possiamo anche dire che la magistratura italiana ha saputo perseguire molti potentati. In Sicilia lo abbiamo fatto con esponenti politici di primo piano, tra cui il presidente della Regione, condannato per vari atti. È vero che nomi da lei citati come Andreotti o Berlusconi non sono mai stati condannati. Ma non è meno vero che da alcune sentenze finali sono emersi fatti dai quali potrebbero derivare responsabilità politiche. Da Andreotti, prima del 1980, sono usciti collegamenti con esponenti della mafia siciliana per parlare, prima, dell’attività politica di Piersanti Matarella, allora presidente della Regione e fratello dell’attuale presidente della Repubblica; e dopo la sua morte, i motivi per cui è stato ucciso”, ha ricordato Di Matteo. “Una situazione di questo tipo dovrebbe attivare meccanismi di responsabilità politica. Andreotti, invece, dopo la sua assoluzione – compresa la prescrizione dei reati antecedenti al 1980 – è stato poco meno che beatificato. Allo stesso modo, una sentenza definitiva che ha condannato uno dei fondatori del partito Forza Italia, Marcello Dell’Utri, ha indicato che detto imputato era stato intermediario e garante di un accordo, stipulato nel 1974, e rispettato tra le parti, almeno fino al 1992, che coinvolse l’imprenditore Berlusconi e le famiglie mafiose palermitane. Un accordo che si basava su uno scambio di tutela personale e aziendale che Berlusconi avrebbe ricevuto dalla mafia, e sul pagamento periodico di ingenti somme di denaro. Anche quando non c’era condanna, la magistratura ha spesso accettato questi fatti. Se da queste non deriva mai la responsabilità politica, il problema non è della magistratura, è una questione di salute democratica”.

Questione collaboratori di giustizia


Nel corso dell’intervista, Di Matteo ha anche parlato della questione dei collaboratori di giustizia grazie ai quali, ha ricordato il magistrato, è “stato realizzato un salto di qualità” nella lotta alla mafia, anche con l’ausilio, nel tempo, di intercettazioni telefoniche e ambientali. “Paradossalmente temo che parte della politica lavori per estinguere definitivamente questo fenomeno che da anni è in forte calo, dal punto di vista quantitativo e qualitativo”, ha però osservato Di Matteo. “Ovviamente, alcune modifiche legislative hanno rallentato il fenomeno. Soprattutto, in un’ottica di riduzione di quella differenza tra la punizione del mafioso irriducibile, che non collabora, e il mafioso collaboratore. Si aprono le porte a possibilità di benefici anche per chi non collabora”, ha affermato in riferimento alla volontà di buona parte della politica di abrogare l’ergastolo ostativo. “D’altra parte, con i collaboratori sono stati posti muri più alti, nel senso che una parte significativa della pena detentiva deve essere sottratta, in modo che non vi sia alcun incentivo a scegliere la collaborazione. Perché oggi il problema è se la collaborazione derivi o meno dal pentimento morale. È un problema in cui noi magistrati non dobbiamo entrare. Non può essere generalizzato in un modo o nell’altro, né dovrebbe interessare la giustizia. È una questione intima, non procedurale. Alla giustizia dovrebbe interessare il fatto che i collaboratori, con le loro conoscenze, amplino il patrimonio di conoscenze dei ricercatori, non che dicano qualcosa di già noto. Si tratta di evitare che, come negli anni Ottanta, tutti i processi mafiosi si concludano con prove insufficienti”.

Legalizzazione delle droghe


L’intervista si è chiusa sulla legalizzazione delle droghe, tema in auge in questo periodo in Spagna. “Devo ammettere che su questo tema sono molto polemico, nel senso che, da un lato, razionalmente, sono consapevole che liberalizzare le droghe comporterebbe, almeno nell’immediato, grandi difficoltà per i trafficanti, e quindi per la mafia”, ha esordito Di Matteo sul punto. “Ma so anche che le mafie sanno adattarsi alle richieste esterne. La liberalizzazione delle droghe non gli infliggerebbe un colpo mortale. Poiché la mafia ha già diversificato la sua attività, si dedica, ad esempio, alle scommesse clandestine, online… Sanno dove piazzarsi. Di fronte a questa situazione, in me prevale la delusione. Capisco le ragioni di chi vorrebbe liberalizzarle, soprattutto le droghe leggere. Ma non sarebbe, secondo me, un passo davvero decisivo per mettere in crisi la mafia. La mia idea personale è che uno Stato che contribuisce in qualche modo a diffondere una situazione di scarso autocontrollo tra la propria gente, tra i suoi giovani, non è uno Stato che tutela i propri cittadini. Queste ragioni sono in parte legate a considerazioni che faccio come magistrato, e in parte come cittadino e padre di famiglia”, ha concluso Di Matteo.

In copertina: il giornalista Alejandro Luque e il consigliere togato, Nino Di Matteo (rielaborazione grafica by Paolo Bassani)

Giustizia Italia