Di Luca Grossi
Quello di Emanuele Notarbartolo, a tutti gli effetti, può essere considerato come il primo omicidio eccellente di mafia. Un delitto dalle trame oscure in cui è possibile scrutare il volto della politica insieme a quello della criminalità organizzata. Venne ucciso da 27 coltellate il 1° febbraio 1893 sul treno che percorreva la tratta da Termini Imerese a Palermo.
Nonostante i depistaggi che furono messi in atto per proteggere i colpevoli si riuscì ad aprire un processo a Bologna.
Così il 31 luglio 1902 vennero condannati a trent’anni il deputato Raffaele Palizzolo, ritenuto il mandante esterno del delitto, e il killer Giuseppe Fontana come esecutore materiale. Ma la vittoria fu destinata a durare poco. Tra silenzi, disinteresse e connivenze il 23 luglio 1904 la sentenza di condanna venne rovesciata dal Tribunale di Firenze che assolse entrambi per insufficienza di prove.
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La storia
Emanuele Notarbartolo, nacque a Palermo il 23 febbraio 1824, discendente di un’antica famiglia aristocratica.
Da giovane prese parte all’Unità d’Italia come garibaldino e, dopo molte vicissitudini, il 26 ottobre 1873 venne eletto sindaco del capoluogo Siciliano. Come primo cittadino avviò numerose opere pubbliche nel tentativo di fronteggiare l’altissimo tasso di disoccupazione.
Essendo un uomo dalla riconosciuta moralità, il Presidente del Consiglio dell’epoca, Marco Minghetti, nel 1876 lo nominò direttore generale del Banco di Sicilia che per anni fu usato da elementi legati alle consorterie affaristico – mafiose per finanziare i progetti privati di alcuni soggetti legati al mondo dell’imprenditoria, come la potente famiglia Florio.
L’obbiettivo dichiarato del nuovo direttore fu di evitare il collasso dell’economia siciliana attraverso il risanamento del credito e una stretta sulle concessioni finanziarie che fino a quel momento furono concesse con sospetta leggerezza a scapito dei risparmiatori.
Non fu impresa facile in quanto si ritrovò a fronteggiare una fortissima opposizione, soprattutto da parte del Consiglio del Banco, anche detto il Parlamentino, i cui componenti erano a detta dello stesso Notarbartolo “gente di nessuna competenza bancaria” che rispondeva solo a logiche di “lotte elettorali” e che si ropose di “invadere tutti i campi”.
Nonostante gli scontri e le resistenze il direttore ebbe la meglio, i conti tornarono sotto controllo e per un certo periodo il potere del Parlamentino venne arginato.
La sua dirigenza subì un forte colpo con l’entrata del deputato Raffaele Palizzolo nel consiglio di amministrazione nel 1888, figura da sempre legata agli interessi della potente famiglia Florio. Anche se quella nomina gli provocò non pochi problemi la situazione sembrò ancora una volta risolversi a favore di Notarbartolo ma il governo Crispi decretò il 6 febbraio 1890 lo scioglimento dell’amministrazione del banco di Sicilia e del Banco di Napoli licenziando i loro direttori. Notarbartolo riuscì comunque a tenersi sempre informato su quello che accadde all’interno grazie a funzionari a lui fedeli.
Senza la sua severa vigilanza le attività di speculazione a danno dei risparmiatori ricominciarono senza controllo tanto che l’ex direttore nel gennaio 1893 decise di rendere dichiarazioni spontanee alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta che indagò in merito alle vicende che accaddero all’interno del Banco. Con molta probabilità fu questa sua decisione che decreto il suo assassinio. Il 1° febbraio 1893 due assassini affiliati della cosca di Villabate, Giuseppe Fontana e Matteo Filippello, gli inflissero 27 mortali coltellate sul treno che percorreva la tratta da Termini Imerese a Palermo, il corpo venne poi buttato fuori dalla carrozza forse nel tentativo di simulare una rapina.
Questo omicidio, che ha avuto luogo ormai 120 anni fa, presenta caratteristiche assai attuali: l’isolamento, l’esecuzione, il depistaggio, i “non ricordo”, le complicità e soprattutto quel rapporto strettissimo tra la mafia e il potere politico. Un connubio che esiste ormai dall’Unità d’Italia e che ancora oggi rappresenta la minaccia più grande alla Democrazia nel nostro Paese.
Tratto da: Antimafiaduemila