Il mercato del lavoro italiano, ormai è noto, soffre di una debolezza cronica e tra le più gravi d’Europa. L’ultima notizia diffusa dall’Eurostat aggrava un quadro già particolarmente preoccupante: l’Italia sarebbe il Paese europeo con la più alta percentuale di popolazione inattiva in età da lavoro (15-64 anni). Inoltre, è il Paese in cui questa percentuale è cresciuta di più tra il 2019 e il 2020.
Chi sono gli inattivi? Si definiscono tali le persone che sono al di fuori della forza lavoro e che dunque né lavorano, né cercano lavoro. Si può essere inattivi per svariate ragioni, tra cui lo studio, lo svolgimento di un’attività domestica, il pensionamento o lo scoraggiamento. Comprendere la dinamica di questa misura e i motivi che spingono le persone a essere fuori dalla forza lavoro è di cruciale importanza per analizzare la situazione del mercato del lavoro, la condizione dei lavoratori e le riforme che vengono proposte.
Quanti sono gli inattivi in Italia? Secondo l’Eurostat circa il 36% della popolazione in età da lavoro (15-64), in aumento rispetto al 2019 dell’1,6% e di quasi 20 punti superiore alla Svezia (17,5%) o alla Germania (20%). In sostanza, in Italia ci sono più di 13 milioni di inattivi, in rialzo dopo un periodo di riduzione iniziato nel 2014. Il fenomeno riguarda soprattutto le donne (circa 8,7 milioni) e il Sud (6,2 milioni).
Gli istituti di statistica mettono a disposizione i dati circa le motivazioni per cui gli individui né lavorano né cercano lavoro: osservarli può essere utile per avere uno scorcio non solo del mercato del lavoro, ma dell’intera società.
La quota maggiore di inattivi, in Italia, è rappresentata dagli studenti, vale a dire coloro che per motivi di studio o formazione decidono di non partecipare alla forza lavoro. Nel 2020 sono circa 4 milioni e rappresentano il 32% della popolazione inattiva. Questa è l’unica categoria in cui l’Italia non svetta, ma ciò non deve far sorridere. Infatti, questa percentuale è inferiore sia a quella della Germania (37%), che della Svezia (44%), ma anche di Paesi mediterranei come la Spagna (36%) e il Portogallo (43%). Un dato, questo, che conferma la drammatica situazione della scuola Italiana di ogni ordine e grado alle prese con una emorragia di studenti sia alle scuole superiori che all’università.
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Una quota rilevante di persone che non partecipano alla forza lavoro lo fa perché impegnate nella cura di un familiare. In Italia questa motivazione riguarda circa il 28-29% della popolazione in età da lavoro e il 21% degli inattivi. Un dato impressionante se confrontato con la quota di inattivi la stessa motivazione della Germania (14%) o della Svezia (4%). Da questo dato emergono almeno due tipi di riflessioni. Tanto più lo stato sociale è marginale, tanto più si scaricherà sui lavoratori l’onere di provvedere alle cure dei propri cari. È evidente, infatti, che la carenza di strutture pubbliche e di personale determini un livello così alto di persone che rinunciano a cercare lavoro perché impiegate in questa attività, in assenza di un’alternativa economicamente accessibile. Un problema, questo, che risente gravemente dell’avanzata della povertà nel Paese, spinta dai bassi livelli di occupazione e che fa pesare sempre di più gli oneri della cura dei propri famigliari sul bilancio delle famiglie. Da qui, la seconda considerazione: esistono nel nostro Paese milioni di persone che svolgono un lavoro non retribuito, che le tiene impegnate molte ore al giorno e non prevede alcun tipo di tutela né di sostegno. Investire in servizi pubblici alla persona avrebbe dunque il doppio pregio di permettere a queste persone di cercare un lavoro e contestualmente di aumentare l’occupazione in questo particolare e cruciale settore. Vi è inoltre una spiccata questione di genere che evidenzia come, anche in questo ambito, la carenza di un adeguato sistema di assistenza sociale e dunque di Stato, si riversi sui segmenti più deboli della forza lavoro. A fronte del 6% delle donne inattive per motivi di assistenza domestica in Svezia, in Italia il fenomeno riguarda ben il 32% delle donne e solo il 2,6% degli uomini.
Arriviamo così ad un’altra categoria, che molto ha a che fare con le dinamiche macroeconomiche del mercato del lavoro: gli scoraggiati. In Italia, negli ultimi anni, gli scoraggiati rappresentavano circa l’11% degli inattivi, in Germania l’1,4%, in Svezia il 2,9%. In Austria addirittura lo 0,6%. Più i livelli di occupazione sono alti, più gli scoraggiati sono pochi. Ma chi sono gli scoraggiati? La definizione fornita dall’Eurostat ci viene in aiuto. Sono coloro che non cercano più lavoro believing no job available, ossia credendo che non ci siano lavori disponibili. Sono quindi dei lavoratori che dopo infiniti tentativi con aziende e centri per l’impiego, seguiti da rifiuti o non risposte, hanno smesso di compiere qualsiasi azione per cercare lavoro. Il loro numero, in maniera così preponderante in Italia, sottolinea la cronica debolezza della domanda di lavoro e ci fornisce un’ulteriore variabile per comprendere il problema della disoccupazione. Gli scoraggiati, infatti, non sono altro che disoccupati che hanno perso la speranza di diventare occupati e così decidono di abbandonare la forza lavoro. L’aumento degli inattivi, ma in particolar modo di questa categoria, può dar luogo a un fenomeno statistico che abbiamo già osservato lo scorso anno: la riduzione del tasso di disoccupazione. A ben guardare però, quando ciò si verifica, non sta migliorando la situazione dei lavoratori ma addirittura peggiorando. Non solo non vi è carenza di lavoratori, come i dati sui posti vacanti indicano chiaramente, ma la situazione è così preoccupante che sempre più persone si stancano addirittura di essere disoccupate, dunque di cercare lavoro, e si relegano ai margini della società, uscendo fuori dalla forza lavoro.
È dunque chiara la necessità per il Paese di cambiare rotta. Le vere soluzioni a questa perenne crisi non possono che passare per un forte aumento della domanda aggregata, in modo tale da aumentare l’occupazione. Al contempo, è necessario creare buoni posti di lavoro, per far sì che chi cerca occupazione o chi voglia tornare a cercarla possa farlo avendo davanti prospettive dignitose sia dal punto di vista delle condizioni lavorative che retributive. L’esatto contrario di quello che la retorica padronale ci dice negli ultimi giorni, e che va fermamente combattuta.
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