Di Giorgio Bongiovanni e Luca Grossi
Nino Di Matteo propone e ottiene la bocciatura della figura del ‘referente’ e la difesa della libertà di stampa
L’autonomia e l’indipendenza sono la vera colonna portante della figura del pubblico ministero e come tali devono essere protette. Purtroppo a intervalli regolari qualcuno cerca sempre, con azioni più o meno eclatanti, di ‘ridimensionare’ queste prerogative primarie. Ed è proprio questo che si voleva conseguire con un progetto organizzativo emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ancona, passato in esame durante la seduta plenaria del Csm.
In parole povere, come si legge nella delibera, si era proposto attraverso il progetto organizzativo la creazione di una figura operativa assai controversa: il referente. Ossia una sorta di intermediario, scelto dallo stesso procuratore della repubblica, tra il sostituto procuratore e la “polizia giudiziaria, le pubbliche amministrazioni, gli ordini professionali e comunque i soggetti che si occupano delle materie di competenza del relativo gruppo di lavoro”.
In particolare il suo scopo, come descritto durante la riunione plenaria, avrebbe riguardato anche il mantenere i rapporti con la polizia giudiziaria in merito alle attività di indagine, sia preliminari o integrative (cioè quelle che si possono svolgere anche durante il dibattimento). Le motivazioni con le quali si voleva istituire questa figura non hanno convinto il Csm, il quale ha votato all’unanimità un emendamento avanzato dal consigliere togato Nino Di Matteo con il quale ha messo in rilievo il danno provocato dalla creazione del ‘referente’, poiché il mantenimento dei rapporti con la polizia giudiziaria, soprattutto in merito all’attività di indagine, è, come ha più volte sottolineato Di Matteo, prerogativa primaria del sostituto titolare del procedimento.
Di Matteo ha detto più volte, durante il suo intervento, che si tratta di una “chiara menomazione delle prerogative del sostituto” poiché si consacra con la figura del ‘referente’, “un’accentuazione assolutamente impropria e ingiustificata di una gerarchizzazione di quell’ufficio di procura” dove i rapporti con la polizia giudiziaria o gli altri gruppi di lavoro diventano prerogativa esclusiva del procuratore capo o dell’aggiunto, in quanto il ‘referente’ è nominato direttamente da questi ultimi.
“Attribuire al referente questo compito costituirebbe secondo me una chiara violazione di una norma primaria” come ad esempio l’articolo 51 del c.p.p. che assegna “al pubblico ministero piena autonomia rispetto al procuratore e a tutta la scala gerarchica” ha detto Di Matteo.
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Le osservazioni del consigliere togato sono state infine accolte all’unanimità ma subito dopo il plenum ha dovuto esaminare un caso simile ma ugualmente dannoso.
Nella successiva proposta di delibera (tornata poi in commissione con 13 voti a favore e 10 astenuti) il procuratore della Repubblica di Potenza aveva avanzato un provvedimento in base al quale la richiesta di copie degli atti di indagine, non coperti da segreto, poteva essere fatta solo da un “giornalista professionista iscritto all’Ordine su delega scritta del Direttore responsabile della testata giornalistica”. Tale provvedimento era stato attuato, come si legge, con la motivazione di “garantire che il rilascio di copia di atti di un procedimento penale avvenga per assolvere alle esigenze sottese a tale diritto e non al perseguimento di altre finalità”.
Tuttavia c’è un dettaglio tecnico. Di Matteo ha detto che in base al provvedimento “il procuratore attribuisce a sé stesso – nell’ambito dei procedimenti che evidentemente non sono ancora approdati davanti al giudice” e neanche davanti “al pubblico ministero titolare del procedimento – la competenza a decidere sull’interesse che può giustificare il rilascio di copie di atti“. “Quindi – ha continuato – diciamo una violazione delle norme che afferiscono all’individuazione di chi è competente a fare una valutazione se rilasciare o meno gli atti“.
Inoltre “nel momento in cui, riferendosi ai giornalisti, impone che possano essere prese in considerazione soltanto le istanze di quei giornalisti iscritti all’albo professionale e che siano addirittura muniti di apposita delega del direttore responsabile della testata, finisce per eludere, o meglio violare, quello che è il disposto della norma primaria che attribuisce questa facoltà a ‘chiunque ne abbia interesse‘” come scritto nell’ex art. 116 c.p.p.
Tutto ciò potrebbe rappresentare un “principio per cui i capi parlano solo con i capi” ha spiegato il consigliere, cioè “che il rilascio di copie è subordinato sostanzialmente ad una interlocuzione diretta o indiretta tra il procuratore della repubblica e il direttore della testata. Io penso che questa delibera debba tornare in commissione“.
Le argomentazioni esposte da Di Matteo hanno trovato ampio appoggio all’interno del consiglio come dimostrato dai 13 voti favorevoli al ritorno in commissione. Ciò rappresenta un ottimo risultato che dimostra come la presenza di alcuni consiglieri (come Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita e altri come loro) può portare ad un vero cambiamento positivo all’interno del Csm: diventare finalmente l’organo di autogoverno della magistratura che garantisce e protegge l’autonomia e l’indipendenza di tutti i magistrati.
Tratto da: Antimafiaduemila
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