di Giorgio Bongiovanni
“Stanno scassando la minchia”. Già, proprio così. Il riferimento è a Massimo Giletti, conduttore di Non è l’Arena, ed al magistrato Nino Di Matteo che era stato ospite della trasmissione. Quelle parole, dette dal boss stragista di Brancaccio Filippo Graviano, fratello di Giuseppe, sono state riportate in una relazione del Gom che è stata inserita all’interno di un libro, U Siccu “Matteo Messina Denaro: l’ultimo capo dei capi” (Rizzoli), scritto dal vice direttore de L’EspressoLirio Abbate. E se sulla stampa a parlarne per primo è stato Salvo Palazzolo con il quotidiano “La Repubblica” per il nostro giornale il primo commento è quello del nostro editorialista Saverio Lodato.
Sinceramente, però, non possiamo non ritornare sul punto perché quando un boss della levatura di Filippo Graviano, quello che collaboratori di giustizia definiscono come la “mente finanziaria” della famiglia di Brancaccio, insieme ad altri, arriva a maledire Nino Di Matteo e Massimo Giletti la faccenda merita un approfondimento.
Il ministro della Giustizia potrebbe rispondere: “Ed io che cosa c’entro con questa storia?”. Ebbene c’entra nel momento in cui i boss stragisti hanno detto altro, lanciando un plauso, di fatto, all’operato del ministro (“Il ministro fa il suo lavoro e loro rompono il…” diceva Graviano mentre parlava ad alta voce con lo ‘ndranghetista Maurizio Barillari).
Va ricordato che l’argomento dibattuto in quei mesi su Non è l’Arena era la scarcerazione di svariati capimafia, anche detenuti al 41 bis, a causa dell’emergenza Covid-19. Una vicenda che è “rientrata” soltanto dopo una lunghissima serie di allarmi lanciati proprio dalla magistratura, qualche organo di informazione e dai familiari vittime di mafia, con i provvedimenti che hanno riportato in galera diversi detenuti di quelli che avevano ottenuto i domiciliari o il differimento pena. Il 10 maggio, poi, si era tornati a parlare coraggiosamente del clamoroso dietrofront del ministro Bonafede, tornato sui propri passi nella scelta di affidare a Di Matteo il ruolo di vertice del Dap.
Il ministro Bonafede c’entra perché boss stragisti, conoscitori dei segreti delle stragi di Stato, alzano la voce ed applaudono al suo operato e, contrariamente, accusano Nino Di Matteo, che già non volevano come direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria nel 2018, e Giletti.
E quando i boss mafiosi parlano non è mai per caso. Anche da questi segnali noi possiamo trarre elementi per le nostre analisi.
E come abbiamo detto più volte è evidente che la mancata nomina di Di Matteo al Dap è una scelta sbagliata del ministro Bonafede. Ancor di più se si considera che il Guardasigilli, come da lui stesso ammesso, era al corrente delle relazioni del Gom sulle proteste dei mafiosi che non volevano Di Matteo a capo delle carceri italiane. L’unica risposta logica a quelle rimostranze, se davvero si voleva essere forti contro i desideri dei boss, era nominare il magistrato proprio in quel ruolo.
Invece Bonafede ha agito al contrario. Non avrà subito le pressioni dei boss mafiosi, ma gli stessi avranno gradito quel voltafaccia e a leggere i nuovi commenti dei capomafia di Brancaccio il sospetto è legittimo.
Questo è quello che dovrebbero anche capire giornalisti da sempre attenti ed impegnati nell’analisi di fatti e misfatti, di mafia e non, come Marco Travaglio. Il direttore de Il Fatto Quotidiano in questi giorni è stato giustamente impegnato nel ricostruire l’intero panorama di inchieste, scandali, processi e sentenze che hanno riguardato l’Universo di Silvio Berlusconi. Basti ricordare, ad esempio, i fatti accertati con la sentenza di condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa di Marcello Dell’Utri, l’amico co-fondatore del partito Forza Italia, in cui si dimostra che l’allora imprenditore Berlusconi nel 1974, con l’intermediazione di Marcello Dell’Utri, avesse stipulato un patto con esponenti apicali, esponenti di vertice della Cosa Nostra palermitana. Patto di reciproca protezione e sostegno. E che quel patto era stato rispettato dal 1974 almeno fino al 1992.
Giustamente Travaglio ha ricordato i fatti di fronte alla grave e tragica volontà di soggetti come Prodi, ed altri come lui, che clamorosamente sembrano voler ripescare Berlusconi dal cilindro per offrire una nuova vita politica.
Ma al contempo Marco Travaglio insiste a non raccontare un’altra faccia della medaglia del mondo politico, quella di un Governo (quello attuale a marca Cinque Stelle-Pd) che sulla lotta alla mafia è pressoché immobile. Perché non bastano qualche buona legge e riforma (voto di scambio, spazzacorrotti, blocca-prescrizione) per tracciare un bilancio positivo. Il ministro Bonafede, che non è un colluso con la mafia, ha comunque commesso una lunga trafila di errori e dietro la vicenda del “Niet” contro Di Matteo (mai chiarita) si intravedono pressioni ulteriori. E’ lo stesso Di Matteo che lo ha ricordato in Commissione parlamentare antimafia: “Bonafede insistette più volte, e al momento di congedarci mi disse ‘ci sto rimanendo male, la prego di rifletterci, per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengano’”.
Quando il ministro spiegherà il significato di quelle parole?
Al momento non è dato saperlo. E intanto ci troviamo un Presidente del Consiglio che ha saputo fare un ottimo lavoro sul fronte europeo e nella gestione dell’emergenza Coronavirus, ma che continua a fare orecchie da mercante, affidandosi ad un ministro della Giustizia inetto ed inesperto, o un ministro degli Interni che sul fronte della lotta alla mafia non sta lasciando alcuna traccia.
E ciò avviene mentre le mafie continuano a ingrossare i propri profitti, arrivando ad investire in borsa ed ottenendo ingenti capitali grazie al traffico internazionale di stupefacenti. E in quest’ultimo campo la ‘Ndrangheta detiene il monopolio mondiale “incassando” 80 miliardi di euro l’anno. Un mercato florido che, in base ai dettami europei viene anche inserito nel calcolo del Pil. Provocatoriamente si potrebbe pensare che anche il nostro Paese, così come diversi Paesi del Sud e del Centro America, sia un “NarcoStato”.
Ma di queste cose è meglio non parlare. Meglio non dire nulla all’opinione pubblica.
Ecco l’assurdo governo del “non cambiamento”. E nel mentre Di Matteo, già condannato a morte da Totò Riina e Matteo Messina Denaro, il Superlatitante capo di Cosa nostra assieme al carcerato Giuseppe Graviano, viene nuovamente minacciato dagli strali dei boss stragisti, assieme ad un giornalista. Sullo sfondo lo scenario terribile di un ritorno del “Caimano” Berlusconi, o chi per lui, nel segno del gattopardiano “tutto cambia, affinché nulla cambi”. E il Sistema criminale dello Stato-mafia ringrazia.
In foto: i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, e Alfonso Bonafede
Tratto da: Antimafiaduemila
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