Di Gaetano Colonna
Fra poche settimane siamo certi che i media ci distrarranno un po’ dalle quotidiane litanie pandemiche per riprendere la vulgata sull’11 settembre 2021, di cui ricorrono i venti anni.
Nel frattempo chiediamo al lettore di verificare se qualcuno oggi sta parlando di come si sta concludendo, dopo l’Iraq, la campagna di guerra ventennale in Afghanistan: l’operazione Enduring Freedom, poi Isaf, poi Resolute Support, cui le forze armate italiane hanno pagato un tributo di 53 morti e 723 feriti, tra i 50mila uomini che abbiamo inviato là, ad un costo stimato intorno agli 8-9 miliardi di euro.
Chi ricorda oggi la retorica roboante che ha permesso l’avvio dell’intervento occidentale nel Paese asiatico, nel dicembre 2001, motivato con la proclamata volontà di punire gli autori dell’attacco alle Twin Towers e sradicare la mala pianta dell’oltranzismo islamista? Cosa resta di tutto questo?
I talebani, più forti di prima, stanno vincendo il conflitto, avendo occupato oltre il 70 per cento del paese, via via che le principali città e le varie province cadono in loro possesso, e le forze armate del governo centrale, costosamente addestrate dai nostri eserciti, si vanno qua e là squagliando come neve al sole.
Gli statunitensi, al loro secondo (o terzo) Vietnam, stanno velocemente abbandonando il governo, affermando ipocritamente che esso è perfettamente in grado di difendersi da solo. Quel governo, irrimediabilmente malato di corruzione, personalismi, tribalismo, che avrebbe dovuto portare la democrazia in quel Paese, una delle motivazioni principali che venti anni fa giustificarono quel massiccio intervento militare.
L’unica preoccupazione degli Usa in questo momento è di portare a casa il loro personale ancora presente in Afghanistan, e magari mantenere qualche linea di intelligence nel Paese, non si sa mai.
La debolezza militare occidentale
Una volta di più, l’Occidente esce dunque umiliato da un conflitto contro un popolo asiatico, povero e arretrato: poiché anche qui le motivazioni delle truppe occidentali erano puramente di facciata, sia quelle ideologiche che quelle geopolitiche – fondate su menzogne di palmare evidenza, che il presidente George Bush jr. aveva all’epoca offerto al mondo, raccogliendo il plauso unanime delle classi dirigenti europee, bene addomesticate da tempo a questo scopo.
Sul piano militare, non si è tenuto alcun conto del fatto che una grande parte della popolazione non si riconosce nei valori o negli pseudo-valori dell’Occidente americanizzato, ragione per cui le truppe da noi inviate restavano comunque truppe straniere, invasori, anche quando simpatici e armati di ottime intenzioni (almeno alcuni…).
Non si è tenuto conto, ancora una volta, della capacità di popoli, da secoli abituati a combattere con pochi mezzi ma con volontà ferrea, di tenere testa a eserciti professionali, altamente tecnologizzati ma bassamente motivati, pronti a colpire dall’alto e da lontano, assai meno disposti a contendere palmo a palmo all’avversario un terreno aspro, inospitale, insidioso.
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Sconfitta dell’interventismo americano
Una volta di più, la strategia interventista nordamericana lascia dietro di sé una scia di sangue, distruzione, insuccessi: circa 241mila vittime dal 2001, di cui almeno 71mila civili; 2,7 milioni di espatriati; 4 milioni di profughi interni, su di una popolazione di 38 milioni, in una nazione poco più grande della Gran Bretagna. Il tutto per un costo stimato di 2.261 miliardi di dollari per i soli Stati Uniti.
Cosa resta di tutto questo? Quali obiettivi strategici sono stati ottenuti?
Colpisce il fatto che da nessuno dei politici, degli alti gradi militari, delle alte cariche dello Stato italiano, si sia mai levata né si levi oggi una voce di critica su quanto accaduto, una riflessione sugli errori commessi, una notazione sull’assurdità di un impegno italiano in un zona del mondo cui nessun interesse ci lega – a parte quelli culturali, in altri tempi pacificamente e dignitosamente sviluppati da figure di Italiani come quella di Giuseppe Tucci, che ben altro trovò da fare in quelle nobili terre, così importanti per l’antica storia del mondo.
Quale pace, quale guerra?
Nessuno degli esponenti dei governi che in questi venti anni, così come fin dal 1943, hanno ubbidientemente servito il padrone statunitense, ha ritenuto di dover spiegare al popolo italiano come mai un’operazione ipocritamente definita come di peace keeping (mantenimento della pace) abbia prodotto il numero di vittime sopra ricordato, anche fra le file dei nostri soldati, oltreché fra civili innocenti e inermi.
Nessuno degli epigoni di una classe dirigente del tutto priva di una coscienza nazionale verrà mai a spiegare come questo ventennale spargimento di sangue possa iscriversi nella continuità storica dell’Italia unita: eppure ad ogni pie’ sospinto la retorica governativa torna sul ripudio della guerra come fondamento costituzionale del nostro Paese; sulla condanna della seconda guerra mondiale, o delle imprese di Libia e di Etiopia – che, discutibili finché si vuole, pure avevano almeno un loro ovvio fondamento nelle vicende geopolitiche dell’epoca.
Quello che possiamo augurarci è dunque solo che un’opinione pubblica più accorta e informata, se in futuro saremo ancora chiamati dall’alleato egemone a compiti del genere, possa finalmente mobilitarsi per richiamare chi governa al rispetto della sovranità nazionale, degli interessi strategici dell’Italia, di giustizia e rispetto nei rapporti con gli altri Paesi.
Tratto da: clarissa.it, Antifiaduemila