Una ”dissociazione” per la libertà, la strategia del boss Filippo Graviano

Una ”dissociazione” per la libertà, la strategia del boss Filippo Graviano

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Tempo di lettura: 6 min

Di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari

La trattativa Stato-mafia continua?

“Il boss stragista Filippo Graviano, condannato all’ergastolo per l’omicidio del beato Pino Puglisi, per le stragi del 1992 e del 1993 si è dissociato da Cosa nostra e chiede di usufruire di un permesso premio per lasciare il carcere”.
A scriverlo è il settimanale L’Espresso, in edicola domenica 21 febbraio, in un servizio sui fratelli Filippo e Giuseppe Graviano condannati definitivamente al 41 bis e al carcere a vita per numerosi omicidi e stragi.
Il settimanale spiega che il boss di Brancaccio è stato recentemente interrogato dai magistrati fiorentini che indagano sui mandanti esterni delle stragi del 1993 (fascicolo aperto nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri), e a loro ha fatto mettere a verbale di volersi dissociare, senza però accusare nessuno.
Le uniche ammissioni hanno riguardato la sua partecipazione alla cosca di Brancaccio. Per il resto ha sostenuto di non avere più contatti con il fratello Giuseppe, anche se hanno il medesimo avvocato e vi sarebbero sporadici contatti tra sua moglie, Francesca Buttitta, ed il cognato Giuseppe.
E alle domande sui rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e la famiglia Graviano, il Graviano, prima di tornare nel suo silenzio, avrebbe risposto che sul punto c’è “una questione pregiudiziale”.

Le parole di Spatuzza


Filippo Graviano, definito dai collaboratori di giustizia come la “mente finanziaria” della famiglia di Brancaccio, al collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza durante la detenzione a Tolmezzo disse: “E’ bene far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare qualche cosa è bene che anche noi cominciamo a parlare coi magistrati”.
Così è accaduto che nel 2020, per svariate udienze, il fratello Giuseppe ha risposto alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel processo ‘Ndrangheta stragista fino a trincerarsi nuovamente dietro al proprio silenzio il 29 maggio, fino alla consegna della memoria.
Deposizioni in cui “Madre Natura” ha di fatto lanciato messaggi all’esterno, parlando dei rapporti economici che la sua famiglia avrebbe avuto con Silvio Berlusconi e di “imprenditori che non volevano che le stragi si fermassero”. Ma anche lasciando intendere di nutrite speranze dopo i pronunciamenti della Cedu sull’ergastolo ostativo ed il regime carcerario 41 bis.
Punti chiave che tutti i capomafia vorrebbero veder sparire dai tempi delle stragi, dei “papelli” e delle trattative.

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La via della dissociazione


Adesso, però, un’altra strada per i boss potrebbe essersi aperta da quando la Corte Costituzionale, nell’ottobre 2019 si espresse sull’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario.
Di quella Corte faceva parte l’attuale ministro della giustizia Marta Cartabia. In quel provvedimento, in nome dei diritti dell’uomo, si sostiene che per l’ergastolano, sia o meno mafioso, la collaborazione con la giustizia non è più una “conditio sine qua non” per ottenere eventuali benefici carcerari.
E sarebbe proprio questa la strada che lo stragista di Brancaccio ha voluto abbracciare, tanto da chiedere al giudice di sorveglianza dell’Aquila un permesso premio.
A ben vedere non sarebbe questa la prima volta che afferma ai magistrati di volersi dissociare.
Sarebbe accaduto nel 1999 e lo disse ai pm di Firenze di allora, Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi. Stavolta, però, il boss avrebbe espresso la sua decisione mettendola anche nero su bianco in un verbale.
Certo è che quella della “dissociazione” è una strada che anche altri capomafia, in passato, avrebbero voluto adottare.

Il racconto di Alfonso Sabella


Basti pensare a ciò che disse nel 2009 l’ex pm Alfonso Sabella al giornalista Nicola Biondo. L’ex sostituto procuratore di Palermo aveva ricordato che si trattava di “una vecchia idea” che era stata “suggerita a Provenzano”. “I mafiosi devono fare una dichiarazione in cui si arrendono ma non sono costretti a fare i nomi dei loro complici. In compenso escono dal 41 bis ed evitano qualche ergastolo”. Ed è ciò che avvenne nel 2000 quando otto boss mafiosi, tra cui Pietro Aglieri, Nitto Santapaola, Pippo Calò, Giuseppe Farinella e Piddu Madonia avevano fatto sapere che volevano dissociarsi chiedendo una sorta di legge ad hoc.
Al tempo Sabella lavorava al Dap insieme a Gian Carlo Caselli e alla fine di questa “dissociazione” non se ne era fatto nulla. La cosa però si era riproposta di nuovo nel 2001 e questa volta a chiedere la dissociazione si erano ritrovate le varie mafie italiane: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita. A fare da ambasciatore di una simile iniziativa era stato designato Salvatore Biondino, uomo di fiducia di Totò Riina, nonché capo mandamento di San Lorenzo, legato ai Servizi Segreti. “Pago la mia opposizione – aveva precisato Sabella raccontando quanto da lui vissuto in quel periodo – e il mio ufficio viene soppresso proprio da Gianni Tinebrache intanto aveva sostituito al Dap Gian Carlo Caselli. Molto tempo dopo si scopre ed è tuttora oggetto di un’inchiesta della procura di Roma (successivamente archiviata, ndr), che il magistrato che Tinebra ha messo al mio posto al Dap (Salvatore Leopardi, ndr) collaborava proprio con il Sisde di Mori nella gestione definita ‘anomala’ di alcuni detenuti e aspiranti collaboratori di giustizia (l’inchiesta riguardava le manovre al Dap per “orientare” e depotenziare, nel novembre del 2002, le rivelazioni del nuovo pentito Nino Giuffrè a proposito di Dell’Utri, ndr)”.

Contro il 41 bis


Se si osserva bene la strada della dissociazione, ovviamente, non è propedeutica ad una collaborazione con la giustizia nel momento in cui il “dissociato” è libero di non accusare nessuno. Un’idea folle che anche in passato certa politica aveva portato avanti. Ed oggi il rischio che dopo i pronunciamenti della Cedu e della Consulta si torni all’era della pietra (ovvero a prima delle stragi di Stato del 1992 e del 1993) su questo fronte è altissimo.
Basti pensare alle parole che il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale, disse nell’aprile 2019, nel momento in cui nella relazione annuale sull’attività della Corte, nella parte dedicata al carcere e all’esecuzione penale, si indicava alla magistratura di sorveglianza di “perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività, ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete”. Parole dette nel pieno delle polemiche contro le scarcerazioni dei boss durante il lockdown nazionale e la primissima emergenza pandemica.
Parole che di fatto andavano ad aggiungersi all’indirizzo della Consulta sull’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario dopo la quale la magistratura di sorveglianza ora può intervenire anche con scelte che sarebbero clamorose quanto assurde.
Basti immaginare il significato prorompente che avrebbe un ritorno in libertà di un boss come Filippo Graviano all’interno di Cosa nostra.
A questo punto, mettendo insieme l’operato dei due fratelli boss di Brancaccio è chiaro che vi sia una strategia apparentemente distinta, ma sempre volta a depotenziare il regime carcerario.
Quel cruccio che Cosa nostra si porta dietro da oltre 27 anni.

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Di Matteo: “La dissociazione non è un ravvedimento”


Sul punto è intervenuto, raggiunto dall’agenzia Agi, anche il consigliere togato Nino Di Matteo: “La semplice dichiarazione formale di volersi dissociare da Cosa nostra non è mai stato indice di reale ravvedimento. Anzi storicamente, a partire dal periodo immediatamente successivo alle stragi del ’92, alcuni capi di cosa nostra hanno periodicamente tentato di sfruttare finte dissociazioni per ottenere benefici per loro e per l’intera organizzazione mafiosa”. Il magistrato, già membro del pool che ha condotto l’accusa nel processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, in seguito alla quale la Corte di assise di Palermo, nel maggio 2018, ha condannato boss mafiosi, ufficiali dei carabinieri e l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri ha poi aggiunto: “La concessione per legge di quei benefici fu uno dei punti più sensibili e importanti della trattativa Stato-mafia. Spero che il passato ricordi a tutti che da Cosa nostra si esce solo collaborando seriamente con la giustizia, raccontando ai magistrati tutto quello di cui si è a conoscenza”.
La speranza è quella che espresse il consigliere togato Sebastiano Ardita, presidente della Commissione di Palazzo dei Marescialli sull’esecuzione penale e la sorveglianza, commentando la sentenza della Consulta nel momento in cui evidenziava come stesse al Parlamento il compito di “mantenere fermo il sistema della prevenzione antimafia e fare la propria parte per impedire che quella che dovrebbe essere una eccezione diventi una regola che va a beneficio di personaggi capaci di riorganizzare Cosa nostra e non rivolta a chi, in base a prove certe, sta fuori dalla organizzazione”. Secondo Ardita potrebbe esservi un ulteriore rischio in quanto “dovremo aspettarci una prevedibile pressione delle organizzazioni mafiose sulla magistratura di sorveglianza”.
Un punto chiave che il neonato governo deve tenere bene a mente, anche se le premesse non sono delle migliori.
Basta guardare ciò che è avvenuto con il ritorno nella maggioranza di governo di un partito (Forza Italia) che è stato fondato da un uomo della mafia (vedi Marcello Dell’Utri, già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa) e che ha come leader quel Silvio Berlusconi che (lo dicono le sentenze) pagava Cosa nostra.
Anche da questi elementi si possono trarre dei segnali. E intanto i boss pongono in essere le nuove strategie per alleggerire il carcere duro e, speriamo di no, tornare all’attacco.
Può essere un nuovo prologo di un’ennesima trattativa Stato-mafia?
Al momento possiamo solo osservare. Il rischio che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo, non è stato mai così alto come oggi. E se il nuovo governo, soprattutto nei settori cardine della lotta alla mafia (Presidente del Consiglio, Ministro della Giustizia e degli Interni) non saprà tenere il polso duro il cordone perverso tra mafia e Stato non sarà mai interrotto.

Tratto da: Antimafiaduemila

Giustizia Italia