di Fabrizio Poggi per l’AntiDiplomatico
Mentre la “fraterna” Polonia “senza frontiere” con l’Ucraina introduce il divieto su importazione e transito di prodotti agricoli ucraini fino al 30 giugno, è prorogata fino a maggio l’esportazione in Africa di cereali da Ucraina e Russia, la cosiddetta Black Sea Grain Initiative che, approvata da Russia, Ucraina, Turchia e ONU, dovrebbe garantire la sicurezza di navigazione per cereali, derrate alimentari e fertilizzanti spediti da porti ucraini, attraverso corridoi marittimi sul mar Nero.
Dal giugno 2022, allorché fu firmato l’accordo, prorogato ogni quattro mesi, sono state trasportate quasi 25 milioni di tonnellate di cereali e altre derrate verso 45 paesi. Prima della guerra, Russia e Ucraina erano tra i primi dieci produttori mondiali di grano e tra i cinque maggiori esportatori di grano e fertilizzanti verso Europa, Asia e Africa. Tra parentesi, la Russia lo è tuttora.
Il 25% circa dei carichi, scrive Pius Adeleye su “Jeune Afrique”, va a paesi con grossi deficit alimentari, in particolare nel Corno d’Africa; ma i principali beneficiari dell’accordo sono Cina, Spagna, Turchia e Italia. Secondo la FAO, almeno sedici paesi africani importano la maggior parte del grano da Russia e Ucraina; nel complesso, tra il 2018 e il 2020, l’Africa ha importato circa 3,7 miliardi di dollari di cereali dalla Russia e 1,4 mld dall’Ucraina.
Sull’edizione russa di “Forbes”, Aleks Budris scrive però che Mosca minaccia di non approvare la quarta proroga dell’accordo: lo scorso 7 aprile, il Ministro degli esteri Sergej Lavròv ha detto che «Se non ci saranno progressi nella rimozione degli ostacoli all’esportazione di fertilizzanti e cereali russi, valuteremo quanto l’accordo sia necessario». L’Occidente dovrà allora servirsi delle rotte terrestri e dei porti sul Danubio, specialmente in Romania, già così inflazionati.
Le condizioni russe per la proroga dell’accordo sono: il reinserimento della Rossel’khozbank nel Swift, la ripresa delle forniture alla Russia di macchinari agricoli, la rimozione delle limitazioni per l’accesso di navi russe a porti stranieri, la ripresa del funzionamento del condotto “Togliatti-Odessa”, attraverso cui l’ammoniaca russa viene pompata verso l’Ucraina per l’export. Condizioni che, a detta di osservatori russi, difficilmente saranno accolte, cosa che rende quindi verosimile il ritiro russo dal Black Sea Grain, anche se molto dipende dai risultati delle prossime presidenziali e parlamentari in Turchia, garante dell’accordo.
Secondo dati ufficiali russi, diffusi lo scorso marzo, nel quadro di quell’accordo, dal 1 agosto 2022 sono state trasportate 23 milioni di tonnellate di cereali e altre derrate alimentari, di cui il «47% verso paesi ad alto reddito, soprattutto UE, e il 34% verso paesi a reddito medio-alto. La quota di consegne a paesi bisognosi è in costante calo ed è ferma al 2,6%».
Stando a Bruxelles, invece, 456.000 tonnellate sono partire da porti ucraini dirette verso Etiopia, Yemen, Gibuti, Somalia e Afghanistan, col 65% del grano esportato verso paesi in via di sviluppo.
Altri dati ancora sono quelli del Centro di coordinamento congiunto del Black Sea Initiative: dall’inizio dell’accordo fino al 9 aprile 2023, sarebbero state esportate 27,4 milioni di tonnellate di prodotti agricoli: 13,7 mln di mais, 7,5 mln di grano. Principale destinatario sarebbe la Cina, con 6,2 milioni di tonnellate (22,6% del totale), seguita da Spagna (4,7 mln), Turchia (3 mln), Italia (1,9 milioni di tonnellate: 6,9% del totale) e Paesi Bassi (1,7 mln). Tra i paesi bisognosi, destinatari del grano ucraino, ci sarebbero Bangladesh (822.093 t), Yemen (235.618 t), Etiopia (232.759 t), Afghanistan (130.869 t), Sudan (65.340 t), Somalia (53.500 t) e Gibuti (541 t), equivalenti al 20,5% di tutto il grano spedito dai porti ucraini: più o meno la stessa percentuale indicata dalla famigerata USAID, secondo cui tra agosto e novembre 2022, circa 435 navi sarebbero partite da porti ucraini, dirette in 39 paesi, ma solo meno del 20% delle derrate sarebbe andato (direttamente) a paesi vulnerabili quali Kenya, Somalia, Etiopia.
Sembra anzi che le statistiche siano peggiorate durante il secondo periodo dell’accordo (novembre 2022 – marzo 2023): nel solo mese di febbraio 2023, il volume di cereali spediti in Cina, principale beneficiaria del Black Sea Iinitiative, è stato di circa quattro volte più grande di quello esportato in Africa. Secondo le cifre della Direzione doganale cinese, nel 2021 il volume di grano importato aveva superato 164 milioni di tonnellate, contro i quasi 135 del 2020; nei primi cinque mesi del 2022 sarebbe stato di 66,5 mln di tonnellate.
Importazione e esportazione
Ma l’esportazione ucraina passa anche per i cosiddetti “corridoi di solidarietà”, creati dalla UE e da cui transitano 23 milioni di tonnellate di prodotti agricoli e oltre 21 milioni di tonnellate di altre merci. Allo scopo, sono stati temporaneamente aboliti dazi e quote (più avanti, vedremo le reazione degli agricoltori polacchi, romeni, bulgari, slovacchi) per i prodotti ucraini. Questo per ora; perché, con la guerra in corso, ci sono previsioni di un calo del raccolto di grano ucraino per l’anno agricolo 2023-2024 dagli attuali 19,3 mln di tonnellate a 15,2, con un conseguente calo delle esportazioni da 13-16 mln a 10-12 mln di tonnellate.
Tra l’altro, a proposito di “aiuti europei all’Ucraina”, non va dimenticato che ormai da diversi anni (dal 2016, poi, anche col beneplacito parlamentare ucraino), colossi quali Cargill, Monsanto, Dupont, AgroGeneration, ecc., controllano milioni di ha di fertilissime terre nere dell’Ucraina occidentale e meridionale.
La russa Vedomosti scrive che, secondo dati ONU e di Marinetraffic.com, il 57% (1,18 mln di tonnellate su 2,08) del frumento ucraino trasportato via mare nel mese di agosto 2022 era andato a paesi occidentali o membri NATO, (23% in più rispetto al 2021), di cui il 37% a paesi UE, contro il 17% diretto verso paesi africani. Risultava drasticamente calata la quota cinese, passata dal 31% dell’import nel 2021, al 8%.
Oggi, i primi cinque paesi che vantano il 65% dell’export mondiale di frumento, sono Russia (39 milioni di tonnellate), Canada (27,7), USA (26,7), Australia (19,7) e Ucraina (16,8). La geografia dell’export di frumento russo vede ai primi posti Medio Oriente, col 39% del volume esportato, Asia (31%), Africa (20%), UE (7%). Nel 2020-2021, i maggiori cinque importatori sono stati Egitto (13 milioni di tonnellate), Indonesia (10,5), Cina (10,5), Turchia (8,2), Filippine (6,8).
Fonti generali russe dicono che, nel 2021, le quote di export di cereali dall’Ucraina erano del 34% verso paesi occidentali e NATO, del 31% verso la Cina; seguivano Egitto, Indonesia e Turchia col 9% rispettivamente; Olanda 6%, altri 36%; Africa 18%.
Secondo le “Izvestija”, la Russia è leader mondiale nelle esportazioni di grano ormai da sei anni. Ogni anno vengono raccolti più di 120 milioni di tonnellate di grano, due terzi dei quali sono frumento. Si è parlato di un nuovo record di 150 milioni di tonnellate nel 2022, con esportazioni verso Iran, Egitto, Turchia, Bangladesh, Arabia Saudita, ma anche Kazakhstan e Azerbajdžan. Nell’autunno 2022, Vladimir Putin aveva parlato di 30 milioni di tonnellate di cereali esportate in Asia, Africa e America Latina, con la prospettiva, secondo cui «siamo disposti ad aumentare il volume di forniture ai Paesi che più ne hanno bisogno fino a 50 milioni di tonnellate e oltre».
E questo significa anche grossi affari: tra le maggiori cinque proprietà terriere russe, continua a primeggiare “Agrocomplex N. I. Tkacev”, della famiglia dell’ex Ministro dell’agricoltura dal 2015 al 2018 Alexandr Tkacev, con 660.000 ha di terre in Krasnodarskij e Stavropol’skij kraj, Adigeja, regione di Rostov, il cui valore supera i 152 miliardi di rubli. L’impresa controlla 63 ditte, che si occupano di produzione agricola e mangimi, allevamenti da carne e latticini, orticoltura, trasformazione.
L’export ucraino
Oggi, il Ministro degli esteri della junta golpista di Kiev, Dmitrij Kuleba, incurante del ridicolo (e degli ossimori) sproloquia di voler «trasformare il mar Nero in quello che è diventato il mar Baltico: un mare della NATO … Chiediamo la smilitarizzazione del mar Nero, così che i paesi pacifici e rispettosi della legge possano usarlo per il commercio e i viaggi». Ma già per diversi mesi prima dell’accordo Black Sea Grain, la Russia era stata accusata dalle “democrazie” occidentali di aver provocato un aumento della carestia in Africa e Medio Oriente, a causa del blocco del frumento ucraino nei porti. «I paesi ricchi, dietro gli slogan sulla lotta alla fame nel mondo, risolvono i propri problemi, acquistando colture foraggere, principalmente mais… invece di grano alimentare… Nessuno si aspettava che la UE sarebbe stata uno dei maggiori beneficiari del “corridoio del grano”, mettendo in secondo piano i paesi che hanno davvero bisogno di cibo», nota su “Vedomosti” Eduard Zernin, dell’Unione export cereali. E Dmitrij Ryl’ko: «L’Ucraina ha sempre esportato soprattutto cereali da foraggio. Anche ora lo portano verso paesi NATO».
Due mesi dopo l’accordo, Ivan Nechaev, del Ministero degli esteri russo, diceva che «La quota di grano, del cui deficit parlavano i politici occidentali, rappresenta meno del 19% del frumento spedito. Ne sono stati sinora esportati 0,39 milioni di tonnellate, su 20 navi, 9 delle quali salpate per la Turchia e 4 per paesi UE. Ciò solleva dubbi sul fatto che la sicurezza alimentare globale dipenda dall’accordo per lo sblocco dei porti ucraini». Sembra che, dopo la firma dell’accordo del 2022, la prima nave diretta verso paesi con gravi problemi alimentari, sia salpata solo il 21 agosto per Gibuti, con 23.300 t. di grano per l’Etiopia.
A causa del tipico meccanismo di mercato, dell’equilibrio tra domanda e offerta, dice ancora su Vedomosti l’analista Andrej Sizov, le navi non si dirigono verso paesi alla fame: «Le argomentazioni dei politici occidentali, secondo cui i prodotti dovevano essere destinati ai paesi affamati dell’Africa, sono assolutamente infondate: come sempre, vengono inviati dove viene offerto il miglior prezzo». Finora (Vedomosti scrive a settembre 2022) solo cinque navi con 0,17 milioni di tonnellate di grano (il 44% di tutto il grano e l’8% di tutti i cereali esportati dall’Ucraina in agosto) sono state inviate in paesi in cui oltre il 10% della popolazione soffre di gravi problemi alimentari: Gibuti, Libano, Somalia, Yemen, Sudan. In molti paesi africani la situazione è davvero catastrofica. In Congo, su 96 milioni di abitanti, 36 milioni sono denutriti; ma ci sono anche Etiopia, Tanzania, Kenya Somalia (il 60% della popolazione soffre la fame), Repubblica Centrafricana, Madagascar, Congo. Secondo la FAO, al 2021, 828 milioni di persone in tutto il mondo pativano la fame: 46 milioni in più del 2020; e le cifre continuano a crescere.
A qualcuno dovrà pur sorgere il dubbio che, dietro la fame di un miliardo di persone, non ci sia semplicemente l’export russo e ucraino, ma ci sia un sistema che da secoli depreda intere regioni del mondo per i profitti del capitale.
Comunque, lo scorso gennaio, “Jeune Afrique” scriveva che la guerra «in Ucraina ha permesso alla Francia di segnare punti contro la Russia nella battaglia per la fornitura di grano a Marocco, Algeria e Egitto»; e notava che, secondo la governativa FranceAgriMer, le esportazioni francesi di grano tenero avevano raggiunto, all’inizio dell’anno, 1,7 milioni di tonnellate verso il Marocco, 1,5 milioni verso l’Algeria e 900.000 tonnellate verso l’Egitto, vale a dire il triplo» rispetto all’anno precedente. Negli ultimi anni, nota “Jeune Afrique”, l’approvvigionamento di cereali al Maghreb, e in particolare di grano tenero, è stato oggetto di competizione tra Francia e Russia. Storico fornitore dell’area, Parigi ha visto la concorrenza di Mosca che, ormai primo esportatore mondiale di grano tenero, le ha sottratto quote di mercato, in particolare in Egitto e Marocco.
Ma, come detto all’inizio, non tutto procede liscio con i “benefit” accordati alla junta nazi-golpista di Kiev. Anzi, sono proprio gli immediati vicini dell’Ucraina a sollevare le maggiori proteste.
Le reazioni degli “amici” dell’Ucraina
A dispetto dei discorsi d’occasione fatti a Varsavia tra Vladimir Zelenskij e Andrzej Duda, sulla “scomparsa delle frontiere” tra Polonia e Ucraina, ai valichi confinari sono apparsi nuovi “cordoni”, fatti di trattori e cortei degli agricoltori polacchi. Significativo che, proprio nel giorno in cui Duda e Zelenskij si abbracciavano, si sia dimesso il Ministro dell’agricoltura polacco, Henryk Kowalczyk, per protesta contro il rifiuto della Commissione europea di ristabilire i dazi sui prodotti agricoli ucraini – grano, mais, girasole, pollame – rimossi all’inizio del conflitto.
«La Bulgaria è solidale con l’Ucraina e i produttori ucraini. Insieme alla UE, ha sostenuto i corridoi di solidarietà per combattere la fame nel mondo. Ma questi corridoi sono un canale per importazioni verso la UE esenti da dazi senza precedenti», ha detto il vice Ministro dell’agricoltura bulgaro Georgi Sybev. E il suo omologo ungherese, István Nagy, ha promesso controlli più severi sulle importazioni di grano dall’Ucraina, «per assicurarci che il grano raggiunga la sua destinazione originale». Secondo Nagy, cereali, semi oleosi, carne di pollame, uova e miele ucraini creano problemi ai produttori ungheresi, il che «fa pressione sui prodotti ungheresi e abbassa i prezzi di vendita al di sotto dei costi di produzione». Non per nulla, a fine 2022 era cresciuta del 70% l’importazione di mais ucraino nella UE, di 10 volte il grano e 70 volte i girasoli. A differenza della Polonia, comunque, che ha vietato importazione e transito di prodotti agricoli ucraini fino al 30 giugno, l’Ungheria non ne ha per ora proibito il transito.
Anche gli agricoltori rumeni, scrive “Euractiv”, non riescono a vendere il grano, che non può competere con il grano ucraino più economico; e anche il trasporto di grano verso il mercato estero è praticamente impossibile, dato che tutte le capacità logistiche rumene, compreso il principale porto del paese, Costanza, sono occupate da merci ucraine. «Di questo passo, il settore agroalimentare rumeno andrà in fallimento», ha dichiarato il consigliere del Ministero dell’agricoltura Cesar Gheorghe, aggiungendo che se l’accordo del Black Sea Initiative non verrà rinnovato, tutto il transito su rotaia o su strada ricadrà sulla Romania. Così che, dopo le recenti proteste degli agricoltori polacchi, anche quelli rumeni sono scesi in piazza. Con gli slogan “Non uccidere i nostri affari!” e “Stop ai cereali geneticamente modificati dall’Ucraina!”, minacciano lo sciopero nazionale a oltranza dal 7 giugno, se non cesserà l’importazione di grano dall’Ucraina.
Così, sembra che la Commissione europea stanzierà 56 milioni di euro fino al 30 settembre, per compensare le perdite degli agricoltori colpiti: 29,5 milioni andranno alla Polonia, 16,7 alla Bulgaria e 10 alla Romania. Ma Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania e Slovacchia hanno chiesto congiuntamente a Ursula von der Leyen di aumentare gli stanziamenti, o di reintrodurre tariffe e quote per l’importazione di prodotti ucraini. Hanno anche proposto alla Commissione europea l’acquisto di grano in eccedenza dagli agricoltori europei e, insieme alla FAO, anche di grano ucraino, indirizzandolo a bisogni umanitari.
Oltre alla caduta del prezzo della produzione locale, da 370 a 240 euro la tonnellata, gli agricoltori rumeni protestano anche per i pericoli per la salute rappresentati dai prodotti ucraini. «Gli agricoltori ucraini producono merci con insetticidi e pesticidi, proibiti in Romania», scrive la rumena “Economedia”, aggiungendo che si sono registrati anche casi di merci con una componente di organismi geneticamente modificati, vietati nella UE.
Secondo “Radio Romania”, i cereali ucraini che hanno invaso il mercato locale sono spesso venduti a un prezzo inferiore del 70% rispetto a quelli rumeni. Se nel 2018-2020 la Romania non aveva importato grano dall’Ucraina, solo lo scorso anno ne ha importato 570.000 tonnellate (la Polonia 1,6 milioni). «Metà delle esportazioni di cereali ucraini passa per la Romania, lungo il Danubio. Quindi anche i porti sul Danubio sono intasati, le autostrade sono piene di camion con targa ucraina». La TASS ricorda però che lo scorso anno era stata Bucarest stessa a semplificare l’importazione di prodotti agricoli ucraini: esenzione da dazi doganali e dall’obbligo di presentare certificazioni sanitarie e veterinarie.
In Slovacchia, il Ministero dell’agricoltura ha vietato lavorazione e vendita di grano dall’Ucraina e anche della farina già da esso ottenuta: test di laboratorio avrebbero confermato alti contenuti di residui di pesticidi in lotti di grano ucraino.
In generale, se formalmente Polonia, Ungheria, Slovacchia hanno deciso il blocco temporaneo dell’importazione di prodotti agricoli ucraini a causa della scoperta in essi di pesticidi vietati nella UE, il motivo più probabile è piuttosto che l’importazione di prodotti agricoli più economici ha provocato un calo dei prezzi della produzione interna, così che Varsavia e altre capitali europee si sono viste costrette a ricorrere a misure di protezione del proprio mercato. Tanto più che la Polonia è il più importante fornitore di prodotti agricoli per i mercati europei e, con l’attuale proibizione, si tenta apertamente di eliminare un pericoloso concorrente per via “legislativa”.
In sostanza, osservano analisti russi, è improbabile che tali misure abbiano un serio impatto sull’economia ucraina, praticamente finanziata in toto dall’Occidente. Secondo dati di Bruxelles, la “temporanea” abolizione – dapprima fino al luglio 2023, poi 2024 – dei dazi sul grano ucraino, ne ha decuplicato l’importazione nella UE, dalle 287.000 tonnellate del 2021, ai 2,85 milioni del 2022.
Come che sia, un’ulteriore riprova del valore della commedia polacco-ucraina secondo cui «tra i nostri popoli non esisteranno più alcune frontiere: né politiche, né economiche»; ci saranno solo le frontiere dell’impero polacco della rinata “Rzeczpospolita”.
Così che valgono i versi del Teseida boccacciano: «Ciascun si guardi adunque di cadere e del non presto potersi levare, se non gli è forse caro di sapere chi gli è amico o amico pare».
Tratto da: L’Antidiplomatico