Di Karim El Sadi
Secondo il criminologo Federico Carbone il Col Moschin venne ucciso perché forse sapeva troppo del caso Alpi-Hrovatin
Il 13 giugno 1995 sugli scogli del Romito, alle porte di Livorno, viene ritrovato il corpo maciullato di un uomo che presenta i segni di oltre quaranta coltellate e la testa fracassata, probabilmente da un masso pesante 25 chili. La vittima, però, non è una persona qualunque, ma “Condor Mike”, al secolo Marco Mandolini, incursore dei corpi speciali dell’Esercito italiano Col Moschin, nonché capo della sicurezza del generale Bruno Loi nella missione Ibis in Somalia del 1993. Dall’omicidio sono passati 26 lunghi anni eppure la famiglia, grazie alla quale la vicenda resta al centro delle cronache, non sa ancora chi e perché ha ucciso Marco. “Lo Stato ha dimenticato un suo servitore e, fatta eccezione per i suoi amici, anche il mondo militare ha dimenticato il maresciallo Marco Mandolini”, dice colmo di frustrazione Francesco Mandolini, fratello della vittima. “Non credo che riusciremo mai a sapere la verità sulla morte di mio fratello, siamo scoraggiati”. Di recente però sembra prendere corpo una pista investigativa che porta direttamente alla Somalia e all’impegno militare e, non solo, (data l’appartenenza di Mandolini ai servizi segreti), nel Paese del corno d’Africa dove l’Italia era impegnata negli anni ’90 insieme alle Nazioni Unite dopo la caduta del regime di Siad Barre. Si tratta di una pista che potrebbe far luce su alcune trame oscure della missione italiana dai contorni opachi con traffici d’armi e materiale radioattivo. Gli stessi temi sui quali stava indagando Ilaria Alpi, la giornalista Rai uccisa in un agguato a Mogadiscio insieme all’operatore del TG3 Miran Hrovatin il 20 marzo 1994. La sorte toccata a Mandolini, infatti, potrebbe essere in qualche modo connessa al giallo Alpi-Hrovatin. Ma sarebbe anche legata a doppio filo – e questa è la nuova ipotesi investigativa – con la morte di un altro militare e appartenente ai servizi, Vincenzo Li Causi, il maresciallo ucciso il 12 novembre 1993 in un agguato in Somalia. Secondo il criminologo Federico Carbone, che aiuta la famiglia Mandolini a far luce sull’omicidio, “i due (Marco Mandolini e Vincenzo Li Causi, ndr) si conobbero presso il campo di addestramento Gladio di Capo Marrargiu in Sardegna. Inoltre, come risulta dalla documentazione in nostro possesso, Mandolini è stato operativo presso il centro di addestramento speciale Scorpione, situato nella provincia di Trapani”. “Il capocentro della struttura – dice Carbone in una lunga intervista al settimanale Visto – era appunto l’agente del Sismi Vincenzo Li Causi, il quale, come emerso nell’ambito di diversi dibattimenti, operava come in uso ai servizi, sotto diversi nomi di copertura, tra i quali quello di Maurizio Vicari. Il centro diretto da Vicari alias Li Causi, dal 1987 era collocato in un territorio ad alta densità mafiosa e la reale attività del centro è sempre stata poco chiara”, precisa il criminologo. La pista d’indagine battuta sulla morte del sottufficiale toccherebbe anche l’operazione top secret Gladio. Alla domanda sul possibile collegamento di Gladio con i delitti dei due militari, il criminologo risponde con l’esistenza di “documenti, dei quali abbiamo l’autenticità, che mettono in collegamento la morte di Mandolini con la struttura paramilitare”. Sul punto, infatti, Carbone ricorda che, “Li Causi è morto pochi giorni prima di rientrare in Italia, dove avrebbe dovuto rispondere alle domande del giudice Casson che si stava occupando della vicenda Gladio”, e che “Marco era un addestratore Gladio”. Sempre secondo il criminologo i tre cold case – Mandolini, Alpi-Hrovatin e Li Causi – potrebbero essere connessi anche al netto del fatto che le vittime sono entrate più volte in contatto in Somalia. “Esiste una circostanza raccontata dal Mandolini alla sua famiglia, in cui Marco riferisce di aver visto la Alpi discutere animatamente con un alto ufficiale, presente in Somalia”, afferma Carboni. “Venne anche ipotizzato che Li Causi passasse diverse informazioni riservate alla Alpi. Li Causi possiamo definirlo un super agente segreto. Marco Mandolini conosceva Vincenzo Li Causi e non era convinto della versione ufficiale secondo cui quest’ultimo era stato ucciso in un agguato in Somalia”. Secondo l’esperto “potrebbe essere forse questo il movente dell’omicidio del maresciallo della Folgore, oppure non si può escludere un intervento diretto del defunto generale Aidid, uno dei più potenti signori della guerra in Somalia”.
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Mandolini, Alpi e Li Causi depositari di scomode verità
Sempre parlando del caso Alpi l’esperto ricorda che “la tipologia di operazioni condotte dal Mandolini presso il centro Gladio, si riferiva anche al trasporto di casse contenenti armi (Ilaria Alpi stava indagando su traffici di armi in Somalia, ndr), probabilmente destinate alla Somalia, come risulterebbe dalla documentazione da noi riproposta”.
“All’interno di questi documenti emerge la connessione tra il capo del centro, Li Causi e l’operatore Ercole, altro nome di copertura di Mandolini. C’è una lunga scia di morti sospette tra quella nazione africana e il nostro paese e sullo sfondo il traffico d’armi e rifiuti tossici”. E su questa scia potrebbero esserci finiti anche i due militari, come Ilaria Alpi, che potrebbero essere stati “depositari di scomode verità” e per questo uccisi. In questo senso Carbone fa riferimento “ad un episodio riportato dalla mamma di Marco, la quale riferisce che pochi giorni prima che il corpo di Marco fosse rinvenuto sulla scogliera del Romito, vicino a Livorno, ha visto Marco che stava sigillando una busta gialla indirizzata al ministero della Difesa, manifestandole l’intenzione di andare a Roma a consegnarla. Di sicuro sappiamo che Marco, per varie ragioni, era poco amato da diversi soggetti nell’ambiente in cui operava. Ricordiamo inoltre che sono sparite dalla caserma in cui alloggiava Marco, la sciabola e la sua alta uniforme. Inoltre è sparita un’agenda 34 e una scatola di metallo in cui Marco conservava documenti riservati”. “Mandolini, caposcorta del generale Bruno Loinella missione in Somalia, era un personaggio scomodo”, conclude sul punto il criminologo. “Sapeva tante cose, e avrebbe potuto un giorno parlare, raccontare tutto, doveva essere eliminato”.
Depistaggi e domande aperte
Come nel caso Ilaria Alpi anche il giallo Mandolini ha dovuto far i conti con sibilline attività di depistaggio (ricordiamo la vicenda del somalo Hashi Omar Hassan ingiustamente condannato per l’omicidio e poi scarcerato perché innocente dopo 17 anni di carcere). I moventi dell’omicidio del sottufficiale erano diversi e tutti rivelatisi infondati. Il primo legato a ragioni passionali e il secondo a ragioni economiche. Per il criminologo Federico Carbone coloro che hanno avvalorato la tesi passionale l’hanno fatto “in realtà con il solo intento di depistare le indagini. Invece, per l’altro movente” secondo Carbone “Mandolini era riuscito a recuperare le somme versate a un falso consulente”. Misteri riguardano anche il rinvenimento di cadavere. Si ipotizza infatti che Mandolini non sia stato ucciso sulla scogliera del Romito, ma altrove. “Dagli elementi acquisiti sinora sulla ricostruzione della scena del crimine, orario e rinvenimento del corpo – spiega l’esperto – appare ipotizzabile che il cadavere possa essere stato trasferito sulla scena del ritrovamento in un secondo momento. Tesi rinforzata da un testimone, ascoltato sia da me che dal fratello di Marco, secondo cui Marco fu portato lì e non fu ucciso sugli scogli”. Altro interrogativo riguarda le dinamiche dell’omicidio. Secondo Carbone, infatti, “uno come Mandolini, esperto di arti marziali, un addestratore Gladio che parlava quattro lingue, tra cui l’arabo, dotato di una capacità di filtro e in grado di prevedere il pericolo, non era sicuramente facile da affrontare e prendere di sorpresa: stessa cosa si potrebbe dire di Li Causi”. Per questo non è da escludere che ad ucciderlo sia stata una persona che conosceva.
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Ricerca della verità
Ad ogni modo se “oggi questa vicenda è ancora al centro delle cronache lo si deve anzitutto al coraggio della famiglia, in particolare di Francesco e Flaviano, i due fratelli di Marco, che diverse volte hanno subito pressioni e intimidazioni affinché si smettesse di cercare la verità” afferma Carboni dicendo di essere stato anche lui oggetto di intimidazioni. Per citare Carlo Palermo, ex giudice e oggi avvocato, Marco Mandolini fa parte di quelle “vittime molto particolari” che in vita “avrebbero potuto accendere un piccolo faro in grado di illuminare una realtà”. Quale realtà? Probabilmente quella riguardante, come detto, i traffici di armi e di rifiuti tossici attivi in quegli anni tra la Somalia e l’Occidente e quindi l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Misteri che ancora oggi attendono di essere portati alla luce.
Tratto da: Antimafiaduemila
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