Di Francesco Ciotti
Il cielo è arroventato dall’odore di soprusi e violenze, tempeste di fuoco infernali si stagliano all’orizzonte. È una terra maledetta, ma la maledizione più grande sono le sue ricchezze.
Il petrolio è certamente, tra le tante, quella che più ha flagellato la Nigeria negli ultimi decenni: il Delta del Niger ne è ricco e a partire dagli anni ’50 è diventata la zona di maggior sfruttamento ed estrazione.
Il paese è oggi tra i più importanti produttori di oro nero, l’83% delle sue entrate fiscali deriva dall’estrazione del greggio. Una regione in crescita e virtuosa per i nostri parametri monetari, fondamento della nostra esistenza, salvo constatare come questa ricchezza se ne vada verso occidente, persino nel nostro Paese, lasciando alle sue spalle una crescente miseria e povertà. Un enorme debito che spinge grandi masse di disperati a sfidare la morte in mare e tentare fortuna in quei barconi fatiscenti, spesso additati da quelle fazioni politiche che meglio sanno sfruttare il disagio sociale additando gli ultimi, anziché le vere cause.
L’inquinamento nel Delta del NIger
Nel Delta del Niger l’inquinamento ha assunto proporzioni sempre più preoccupanti con le relative conseguenze: malattie alla pelle, leucemie, tumori, un’aspettativa di vita più bassa rispetto al resto del Paese, mentre il rapporto dell’Unep (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di ambiente), evidenzia come i nigeriani residenti nell’area del delta del Niger bevano acqua contaminata da benzene. La stessa Amnesty International ha smentito i dati diffusi per anni da Eni e Shell sull’inquinamento da petrolio nel Delta: secondo i due giganti dell’industria petrolifera la maggior parte delle perdite dalle pipeline sono causate da furti della popolazione mentre le analisi di Amnesty, che utilizzano quasi 3 mila documenti e fotografie, hanno mostrato 89 fuoriuscite di greggio (46 di Shell e 43 di Eni) che dipendevano dai problemi tecnici ai gasdotti.
In queste condizioni disperate di miseria sociale ed ambientale, la corruzione della classe dirigente Nigeriana ha garantito per anni laute concessione alle grandi compagnie di estrazione.
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Processo per corruzione contro Eni e Shell
Fra pochi mesi sarà concluso il processo per corruzione contro Eni e Shell: secondo i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che hanno chiesto una condanna ad 8 anni per l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e per l’ex amministratore delegato Paolo Scaroni, Eni e Shell, per ottenere “senza gara” i diritti di esplorazione del giacimento Opl 245 avrebbero pagato, a fronte di un valore di mercato di oltre 3 miliardi di dollari, una maxi tangente da 1,3 miliardi di dollari, arrivati a personaggi di primo piano del governo nigeriano. I soldi, della presunta tangente, sarebbero stati versati su un conto a Londra del governo africano per poi subito transitare sul conto della società Malabu Oil & Gas, società riferibile a Dan Etete, ministro del petrolio dal 1995 al 1998 e considerato dall’accusa “il tramite principale dei soldi arrivati ai politici nigeriani”. Negli anni ‘90 Etete aveva assegnato alla sua società la licenza petrolifera Opl 245 che sarebbe stata annullata nel 1999 dal nuovo governo, presieduto da Olusegun Obasanjo, per evidenti irregolarità. Avrebbe dovuto attendere la presidenza del suo fidato amico Jonathan Goodluck, in carica dal 2010, per ottenere nuovamente la licenza; ma la grande macchina di corruzione non si sarebbe limitata al capo del governo: sul banco degli imputati sono compresi l’allora ministro della giustizia Mohammed Adoke Bello, il ministro del Petrolio Alison Diezani-Madueke e il ministro della difesa Aliyu Mohamed Gusau. Il loro coinvolgimento nella trattativa sarebbe certificato, secondo l’avvocato che rappresenta la Nigeria Lucio Lucia, da diverse comunicazioni via email a partire dal 2009, che testimoniano le trattative che di fatto hanno escluso dal negoziato la società petrolifera nigeriana e il Dipartimento delle risorse petrolifere, interno allo stesso ministero del Petrolio.
L’arbitrato di Eni contro la Nigeria
Si ritiene che OPL 245 detenga quelle che potrebbero essere le più grandi riserve di petrolio non sfruttate nell’offshore della Nigeria, fino a 9 miliardi di barili, oltre un quarto delle riserve di petrolio comprovate della Nigeria.
A partire dal 2018 il nuovo governo nigeriano, incalzato dalle vicende giudiziarie, ha dato mandato allo studio legale nigeriano Johnson & Johnson di recuperare i fondi di Opl 245, in cambio di un compenso del 5 per cento sulle somme recuperate.
Lo studio ha stipulato dunque un accordo con una società del Delaware legata alla Drumcliffe Partners Llc, che ha garantito finanziamenti per 2,75 milioni di dollari da impegnare nelle azioni legali del Paese africano in giro per il mondo, in cambio di un compenso del 35 per cento sui fondi che riuscirà a recuperare.
Eni non è rimasta in silenzio, ed ha avviato a Washington un arbitrato contro la Nigeria presso l’Icsid (International Centre for the Settlement of the Investment Disputes), organizzazione della Banca mondiale che giudica in merito alle contese contrattuali internazionali, chiedendo di valutare il comportamento della Nigeria che non ha rispettato il contratto firmato nel 2011, negando di fatto la licenza estrattiva della zona Opl 245.
“Si tratta di un atto dovuto a tutela dei nostri investimenti e nei confronti dei nostri investitori”, ha dichiarato Eni.
Vieni da chiedersi quando questi atti dovuti saranno posti nei confronti dell’ambiente o delle popolazioni locali. Non resta che attendere l’esito di questa battaglia per lo sfruttamento di una terra consegnata al mero profitto.
Tratto da: Antimafiaduemila
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