di Giorgio Bongiovanni
Il pm di Palermo, Nino Di Matteo, è stato eletto come consigliere per il Consiglio superiore della magistratura. Ha ottenuto 1184 voti, secondo solo al procuratore aggiunto di Santa Maria Capua Vetere, Antonio D’Amato, che ha invece raccolto 1460 preferenze sui 6799 magistrati che hanno preso parte alle elezioni suppletive che si sono svolte domenica 6 e lunedì 7 ottobre. Un risultato importante per diversi punti di vista.
Questo giornale è stato sempre critico, esprimendoci anche con toni duri ed aspri, nei confronti dell’organo di autogoverno della magistratura. Nel corso della sua storia è lungo l’elenco degli errori, delle sviste, delle maliziose persecuzioni e dei tradimenti che il Csm ha compiuto nei confronti di coloro che hanno dato la vita per la magistratura ed in nome del popolo italiano. Su tutti, basta ricordare quanto avvenne con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oggi amati e ricordati come simboli, ma al tempo osteggiati e denigrati proprio per il loro operato.
Poi ci sono stati gli scandali sulle nomine, come quello scoperto dalla Procura di Perugia, che hanno macchiato enormemente l’intera struttura, e che hanno reso manifesto un modus operandi che, purtroppo, si ripeteva da tempo.
Per rompere lo schema era necessario un cambiamento profondo e queste nuove elezioni, che hanno seguito logiche diverse rispetto la spartizione tra correnti, dimostrano che ciò è possibile.
Va colto il dato che Nino Di Matteo era, e resta ancora oggi, tra quei candidati “indipendenti” che non fanno parte di alcuna delle “correnti” in cui è divisa la magistratura e che mai hanno partecipato all’associazionismo. E’ una folata di vento nuova, positiva, quella che si respira nel momento in cui i magistrati scelgono come rappresentante qualcuno che non appartiene a quel mondo. Una scelta che viene fatta, dunque, per merito e che riconosce il lavoro svolto fin qui dallo stesso.
L’elezione di Di Matteo è dunque la vera novità, ed il segno che una grossa parte della magistratura vuole davvero una riforma del Csm che sappia andare oltre l’ideologia delle correnti e della politica.
Una riforma che potrà essere raggiunta se tutti i membri del Consiglio sapranno cogliere questi segnali.
Di Matteo e D’Amato si aggiungono a Davigo, Ardita ed altri membri già presenti all’interno del Csm, per mettere in atto una riforma dell’Organo, tanto attesa per quanto mai raggiunta.
Abbiamo seguito la campagna elettorale dei candidati ed ascoltato le relazioni che sono state presentate lo scorso 15 settembre ai membri dell’Anm. E in tutti i sedici candidati si è colta proprio la necessità di un rinnovamento all’interno del Consiglio superiore della magistratura.
E già allora Di Matteo espresse in maniera chiara come, a suo modo di vedere, al Csm sia “possibile dare una spallata al sistema invaso da un cancro”.
In una lettera, inviata ai colleghi prima del voto, non ha solo approfondito il concetto ma ha espresso un’idea di grande valore etico-morale, dove a prevalere non è l’aspetto tecnico ma il piano umano-filosofico e sociale. Nella missiva si evince il desiderio del magistrato eventualmente eletto per far sì che sia messa in atto una riforma seria e concreta dall’interno del Consiglio superiore della magistratura, fermo restando l’impegno nella lotta contro la mafia che non può essere in alcun modo trascurata. Di seguito vi proponiamo la trascrizione integrale.
Gentile collega,
sento il bisogno di scrivere questa lettera per spiegare le ragioni e i sentimenti che mi hanno convinto a presentare la candidatura per le prossime elezioni suppletive per il C.S.M.
Una scelta che, credimi, in tanti anni di carriera non avevo mai neppure semplicemente ipotizzato e che, invece, ora abbraccio con entusiasmo e consapevolezza della sua importanza.
Sono entrato in magistratura nel 1991. Appartenevo a quella schiera di giovani siciliani che aveva coltivato quel sogno sulla scia della speranza e della voglia di riscatto che l’azione del primo “pool antimafia” di Palermo aveva suscitato in molti giovani.
Ho vissuto l’uditorio (nella fase del “tirocinio mirato” alla Procura di Palermo) proprio nel periodo delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Per me, e tanti altri, quei ricordi drammatici, la vita e la morte dei colleghi, rappresentano un “segno indelebile” che non possiamo e non vogliamo cancellare.
Dal settembre del 1992 ad oggi ho sempre svolto funzioni di Pubblico ministero, occupandomi di inchieste e processi di mafia. Prima alla D.D.A. di Caltanissetta, poi per diciotto anni a Palermo, e dal giugno del 2017 alla Procura Nazionale Antimafia. Quasi una vita. Centinaia di processi di mafia “ordinaria”, quelli sulle stragi (Chinnici, Falcone, Borsellino), gli omicidi del Giudice Saetta e di Rosario Livatino, i processi su mafia e politica a Palermo e quelli, ancora più complessi e insidiosi, sui rapporti occulti tra Cosa nostra e le istituzioni e sulla trattativa Stato-Mafia. Ho vissuto sulla mia pelle le difficoltà e gli ostacoli che ciascuno di noi inevitabilmente incontra quando pretende di esercitare veramente il controllo di legalità anche sull’esercizio de la gestione del “Potere”.
Ho pagato, e continuo a pagare, sul piano personale un prezzo molto alto per le misure di protezione alle quali (dal 1993 ad oggi, con modalità sempre più stringenti e soffocanti) sono sottoposto.
Nonostante tutto questo, resto profondamente innamorato della toga che indosso.
Continuo a pensare che la magistratura ha rappresentato, nella storia del nostro Paese, l’agente più efficace contro, pericolose ed assai complesse, derive criminali e l’avamposto più illuminato del tentativo di dare effettiva applicazione alla nostra Costituzione. Ne dobbiamo essere fieri e consapevoli, per resistere, oggi più che mai, alla mai dichiarata, ma esistente e pervasiva, volontà di molti altri di limitare la nostra autonomia e renderci collaterali e serventi ai grandi poteri politici, economici e finanziari.
Per combattere questa decisiva battaglia non dobbiamo aver paura della verità e dobbiamo riconoscere le nostre colpe.
Personalmente (negli ultimi anni in particolare) ho percepito, in maniera sempre più evidente, pericolosi segnali di cambiamento e di resa. Come se un insidioso cancro si stesse lentamente diffondendo rischiando di divorare l’intero corpo.
I sintomi sono tanti: la crescente burocratizzazione (legata al prevaler della logica dei numeri e delle “carte a posto”), il carrierismo sfrenato, l’impropria spiccata gerarchizzazione degli Uffici in spregio al principio costituzionale che disegna un sistema di “potere diffuso”; la tendenza al collateralismo che si manifesta nel privilegiare troppo spesso scelte dettate dalla “opportunità politica” piuttosto che dalla doverosità giudiziaria; l’evidente, ed ormai irreversibile, degenerazione del “correntismo”; il consolidamento di vere e proprie “cordate” di potere anche al di fuori delle correnti tradizionali. L’appartenenza che diventa strumento per fare carriera o trovare protezione nei momenti di difficoltà.
Lo “scandalo” che è scaturito dalla pubblicazione degli atti dell’inchiesta di Perugia ci mortifica ma non ci può sorprendere. Non dobbiamo essere ipocriti. E’ una fotografia, amara e tuttavia parziale, di un sistema che conoscevamo e che avremmo dovuto denunciare e contrastare da tempo. Non lo abbiamo fatto e per questo abbiamo toccato il fondo nella considerazione dell’opinione pubblica; in molti di noi si annida oggi il tarlo della rassegnazione. Ma questo può e deve essere il momento, l’ultima irripetibile occasione, di un vero cambiamento. Di una reazione che, in tutta la sua urgenza, è imposta dalla necessità di evitare che altri, anche a colpi di riforme ordinamentali, realizzino il loro scopo di trasformarci per sempre in obbedienti burocrati, forti con i deboli e timorosi e inerti con i forti.
La svolta che si impone deve partire da un corretto e coraggioso quotidiano esercizio delle funzioni di autogoverno. Il C.S.M. deve, una volta e per sempre, abbandonare le logiche dell’appartenenza, della clientela, della mediazione con la politica, della camera di compensazione di favori ed equilibri di potere e finalmente riappropriarsi della sua alta e nobile funzione di baluardo della indipendenza della magistratura nel suo complesso e di ciascun magistrato. A partire dai più giovani, dai tanti “fuori sistema” che quotidianamente sui più disparati fronti giudiziari si espongono, camminando “senza rete” su un filo sospeso, per amministrare giustizia in nome del Popolo.
Se venissi eletto, con sincera umiltà e grande determinazione, cercherei di improntare la mia attività all’ascolto, allo studio, all’approfondimento di ogni questione secondo scienza e coscienza.
Vorrei fare il “Giudice” senza tenere in alcun conto pressioni, condizionamenti, opportunismi personali o di gruppo.
Vorrei, se eletto, spendere tutte le mie forze e mettere a disposizione il mio bagaglio di esperienza, per aiutare ciascuno di noi a recuperare l’entusiasmo, gli ideali e i sogni di quanto, entrando in magistratura, eravamo già consapevoli dell’immenso privilegio di servire, con la toga indosso, il nostro Paese e la nostra democrazia.
Un saluto affettuoso
Antonino Di Matteo
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