La fine di un’epoca

La fine di un’epoca

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Tempo di lettura: 7 min

Di Greg Godels, zzs-blg

Come mai il Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization – WTO) e la Banca Mondiale, tre delle istituzioni economiche internazionali più prestigiose, prevedono un futuro nero per l’economia globale?

La Banca Mondiale, con toni lugubri, «mette in guardia sulla possibilità di un’imminente “decennio perduto” per la crescita economica».

Nel gennaio di quest’anno, la Banca Mondiale ha ridotto le sue previsioni di crescita per il 2023 all’1,7%, rispetto alla sua proiezione del 3% del giugno 2022. Per collocare questa percentuale in prospettiva, va ricordato che durante l’era della globalizzazione rampante, prima del crollo del 2007-2009, la crescita a livello mondiale era in media del 3,5% annuo. Dopo la crisi il livello medio della crescita si è attestato sul 2,8%. E dopo soli tre mesi dalla sua proiezione di gennaio, la Banca Mondiale prevede un intero decennio di aspettative di crescita ridotte. Come riferisce il Wall Street Journal: «Nel prossimo decennio occorrerà uno sforzo immane in termini di politiche collettive per riportare la crescita ai livelli medi precedenti».

Analogamente, il WTO prevede che il volume del commercio mondiale aumenterà soltanto dell’1,7% quest’anno, rispetto alla crescita media del 2,8% registrata dopo il 2008.

Facendo eco all’allarme lanciato in aprile dalla Banca Mondiale, il FMI ha annunciato le sue peggiori previsioni di crescita a medio termine dal 1990.

In altre parole, tutte e tre le principali organizzazioni internazionali hanno diffuso previsioni negative, per non dire catastrofiche, riguardo all’economia globale.

È evidente che la nave del capitalismo, già scossa da una pandemia globale, dall’inflazione rampante, da una guerra in Europa e dai fallimenti bancari, sta imbarcando acqua. Non vi sono motivi per prevedere che affondi – ma di certo è scattato l’allarme.

I guru, i responsabili politici e i docenti di economia ci avevano assicurato che l’orgia di aumenti di prezzi che stava sgretolando il bilancio delle famiglie era soltanto un fenomeno temporaneo, provocato dai danni causati alle catene di rifornimento prima dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina. Sono trascorsi più di due anni da quando ci è stata fatta questa promessa.

Da allora, le spiegazioni hanno lasciato il posto alle preghiere. Gli interventi adottati – l’ennesima mistura velenosa di aumenti dei tassi di interesse servita dalla Banca Centrale – si sono rivelati meno efficaci del previsto contro l’inflazione. I tassi di interesse insolitamente bassi che hanno caratterizzato lo scorso decennio incoraggiano i consumatori a utilizzare liberamente il credito quando le loro entrate sono sotto pressione, come avviene per effetto dell’inflazione galoppante. Con l’aumentare dei tassi di interesse, i consumatori tardano a rendersi conto dell’appesantirsi dei loro debiti provocato dalla necessità di pagare interessi più alti, il che non fa che deteriorare ulteriormente il loro tenore di vita già minacciato. Il ricorso al credito annacqua l’effetto «calmante» dell’aumento dei tassi di interesse sulla domanda dei consumatori.

Gli ottimisti di professione dei media hanno festeggiato dinanzi alle cifre dell’indice dei prezzi al consumo di marzo, che hanno evidenziato una riduzione degli aumenti pari al 5% dei livelli dell’anno scorso (l’obiettivo della Federal Reserve è il 2%). Il calo è indubbiamente significativo, ma i media dimenticano di essere stati proprio loro a ripeterci incessantemente che la Federal Reserve, nel prendere le sue decisioni, fa riferimento al tasso di base (core rate) e non al tasso generale. E questo tasso – che rappresenta il vero indice dei prezzi al consumo – in realtà ha segnato un aumento in marzo: i suoi componenti, cioè i beni e i servizi essenziali, sono aumentati di prezzo rispetto a febbraio. Con buona pace della forza della fede.

Perciò, con ogni probabilità la Federal Reserve aumenterà ulteriormente i tassi di interesse in maggio, accrescendo ulteriormente il costo dei nuovi debiti contratti.

E perché mai l’inflazione dovrebbe attenuarsi, quando i consumatori continuano a correre verso l’Armageddon tollerando l’aumento dei prezzi? Proctor & Gamble, uno dei maggiori monopoli economici mondiali dei beni di consumo (che controlla Tide, Charmin, Gillette, Crest e via dicendo) ha aumentato i prezzi del 10%, limitando le perdite di volume di vendita e realizzando maggiori profitti in termini monetari. Proctor & Gamble non ha alcun incentivo a bloccare o a rallentare l’aumento dei prezzi, finché le sue entrate (e i suoi profitti) continuano ad aumentare. E perché mai dovrebbe farlo? Dopotutto, è in affari per fare soldi.

Per quanto semplice possa apparire, è questa la chiave dell’«enigma» dell’inflazione: «La sola spiegazione di tutto questo in relazione a ciò che abbiamo rilevato riguardo ad alcuni indici di prezzo degli alimentari è che si stanno ampliando i margini di profitto», ha dichiarato Claus Vistesen, economista di Pantheon Macroeconomics citato dal Wall Street Journal. Proprio così – stanno gonfiando i prezzi.

Non si tratta affatto di una «spirale salari-prezzi», come amano ripetere i cortigiani delle multinazionali. Si tratta invece, come confessa Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, di un «comportamento opportunistico» legato a una «spirale profitti-prezzi».

Gli economisti liberali e socialdemocratici criticano la strategia della Federal Reserve che mira a ridurre i consumi allo scopo di scoraggiare gli aumenti di prezzi, ma non hanno alcuna alternativa da offrire. Sono ben contenti di lasciare la gestione dell’economia capitalista ai capitalisti, anche se poi ne criticano le soluzioni.

Anche i fautori della Teoria Monetaria Moderna, un tempo tanto chiacchieroni, mantengono uno strano silenzio. Durante la pandemia aveva acquisito popolarità l’idea di mantenere grossi deficit destinati a stimolare l’economia, senza timore di favorire l’inflazione. I guru di sinistra pensavano di aver scovato un sistema indolore per finanziare le riforme sociali senza attingere ai capitali accumulati dai mega-ricchi – una sorta di pozione magica della politica. Ma il decollo della spirale inflazionistica ha messo a tacere questo dibattito.

Se tre istituzioni capitaliste così importanti prevedono incertezza e instabilità economica, la ragione è che stiamo uscendo da una fase specifica della ristrutturazione capitalista. Tra le caratteristiche e le novità più importanti dell’epoca che ci stiamo lasciando alle spalle, incarnata dal popolare termine «globalizzazione», vi sono «la crescente mobilità dei capitali, l’apertura di nuove aree di penetrazione del capitale, una rivoluzione nell’ambito degli strumenti finanziari, la disponibilità di nuove enormi riserve di manodopera specializzata a basso costo, tecniche di spedizione moderne ed efficienti, l’eliminazione degli ostacoli al commercio e la semplificazione delle normative, l’apertura allo sviluppo privato di settori precedentemente pubblici e l’adozione di accordi commerciali che sanciscono i suddetti mutamenti».

Questa era ha ridato vita al capitalismo, provocando l’aumento dei profitti, l’iper-accumulazione e investimenti speculativi enormemente aumentati. Ben poca di questa nuova ricchezza è stata condivisa con le masse, il che ha determinato diseguaglianze senza precedenti in termini di entrate e benessere.

Il grande crollo economico del 2007-2009 ha esaurito la vitalità dell’epoca della globalizzazione – l’internazionalismo capitalista – protrattasi per oltre due decenni. Enormi quote di capitale iper-accumulato si sono rivolte verso speculazioni sempre più azzardate – un processo che ha finito per crollare sotto il peso della sua stessa arroganza.

Invece di arrendersi all’inevitabile – cioè alla «distruzione creativa» che fa regolarmente seguito a un crollo, il processo naturale di eliminazione degli «asset» tossici che il crollo lascia dietro di sé – i grandi stregoni delle centrali finanziarie di New York, Londra, Parigi, Zurigo eccetera hanno tentato di isolare, proteggere e tenere in piedi le macerie del disastro, «gonfiando» un’economia spompata attraverso una sorta di «restaurazione creativa».

L’espressione «distruzione creativa», resa popolare dall’economista Joseph Schumpeter, fa riferimento ai rottami che un crollo economico si lascia dietro – i «valori» fittizi e sgonfiati associati ai fallimenti di banche e imprese, ai beni e ai servizi fallimentari a prezzi gonfiati, ai posti di lavoro perduti, ai cattivi investimenti, ai titoli crollati eccetera. Secondo Schumpeter e i suoi seguaci, questa distruzione era essenziale per la riorganizzazione dell’economia, per un nuovo inizio che facesse piazza pulita delle scorie prodotte dal crollo.

Storicamente, il prezzo delle crisi è sempre stato pagato principalmente dai poveri e dai lavoratori, ma anche i ricchi, i potenti e le multinazionali accusano il colpo. Più grave è la crisi, meno le élite sono in grado di scaricarne le conseguenze sulle spalle dei meno potenti e dei più vulnerabili. E più grave è la crisi, maggiori sono le resistenze politiche alle ricette di sempre.

Dopo il 2007-2009, tuttavia, le istituzioni dei lavoratori erano estremamente deboli, i sistemi partitici tradizionali non davano voce alle vittime della crisi e i responsabili politici confidavano nella propria capacità di evitare o procrastinare la fase di distruzione creativa. Ritenevano di avere in mano strumenti finanziari in grado di stabilizzare e resuscitare l’economia mondiale senza passare attraverso una fase di arretramento con i relativi rovesci economici. Le banche centrali hanno speso miliardi per acquistare gli «asset» senza valore e chiuderli in cassaforte in attesa che il loro valore risalisse, consentendo di reimmetterli sui mercati. E hanno inaugurato un decennio senza precedenti caratterizzato dal denaro a buon mercato (cioè da tassi di interesse bassissimi), allo scopo di permettere a imprese malaticce, non redditizie e marginali di rimanere in vita e competere per un giorno di più. La disciplina del mercato – fatta di vincitori e di perdenti – ha lasciato il posto all’intervento statale finalizzato a mantenere tutti in gioco.

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Tutto ciò non è servito che a rimandare l’inevitabile. Oggi ogni tentativo di schivare la distruzione creativa sta fallendo; le istituzioni globali sono consapevoli di questo fallimento, e lo ammettono nelle loro fosche previsioni.

Che cosa farà seguito al crollo della globalizzazione può essere soltanto oggetto di ipotesi.

Ciò che è evidente è che stiamo entrando in un periodo di crescente incertezza e conflitto. L’ascesa dei populismi di destra ha stimolato una marcata insoddisfazione nei riguardi delle soluzioni tradizionali, favorendo il nazionalismo e il protezionismo. Numerosi governi europei (Ungheria, Polonia, Italia, Paesi baltici eccetera) e asiatici (India, Turchia, Taiwan, Giappone eccetera) hanno sterzato nettamente a destra, abbracciando militarizzazione, settarismo, anti-liberalismo e nazionalismo. Gli USA e i loro alleati non sono più i campioni del libero mercato e ricorrono a dazi, sanzioni e altri provvedimenti aggressivi e unilaterali.

Le alleanze e le regole del gioco instauratesi negli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo si stanno sgretolando. La leadership mondiale è contesa, il che implica rischi di guerra. L’illusione della globalizzazione in cui «vincono tutti» sta lasciando posto alla voracità dell’«arraffare tutto ciò che si può».

A memoria d’uomo, non si ricorda un altro periodo in cui gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano potuto impossessarsi impunemente delle risorse finanziarie di un altro Paese quale il Venezuela o la Russia. Tutti i segnali parlano non di ordine mondiale, ma di disordine mondiale, segnato da alleanze effimere e incostanti tra vecchi alleati e vecchi nemici. La Turchia può attaccare gli aerei russi in Siria e contemporaneamente vendere alla Russia droni da utilizzare contro l’Ucraina. L’Arabia Saudita può aiutare i fondamentalisti a uccidere i russi in Siria e contemporaneamente promuovere un accordo petrolifero globale con la Russia. La Russia può vendere armi sia alla Repubblica Popolare Cinese sia all’India, approfittando delle tensioni in aumento tra i due Paesi. Gli Stati Uniti possono distruggere impunemente oleodotti che permettevano alla Germania di ottenere energia a buon mercato dalla Russia, mentre gli Emirati Arabi Uniti rivendono alla Germania petrolio russo ufficialmente soggetto a sanzioni. E via discorrendo. L’unico principio alla base delle relazioni internazionali è sempre più l’assenza di qualunque principio.

È più che comprensibile, quindi, che le menti eccelse – e tendenzialmente iper-ottimiste – che lavorano per la Banca Mondiale, il FMI e il WTO prevedano un futuro cupo per il capitalismo globale. Tutti noi siamo avvertiti.

Di Greg Godels, zzs-blg

30.04.2023

Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Fonte: https://zzs-blg.blogspot.com/2023/04/the-end-of-era.html

Economia