“Io ho comandato due compagnie romane, con migliaia di arresti. Il comandante non può verificare per ognuno cosa è stato fatto, ma dopo un fatto così grave come la morte di Stefano Cucchi a una settimana dal suo arresto, a mio giudizio le verifiche dovevano essere più approfondite”. Lo ha detto il generale in congedo Tullio Del Sette (in foto), comandante generale dell’Arma dei carabinieri dal gennaio del 2015 al gennaio del 2018, sentito come testimone nel processo in tribunale a otto militari dell’Arma accusati di avere messo in atto depistaggi per coprire gli autori del pestaggio subito la sera dell’arresto (15 ottobre 2009) dal geometra 31enne, deceduto sei giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini. Come “contributo alla verità processuale”, Del Sette ha esibito la lettera del 12 dicembre del 2015, scritta di suo pugno come comunicato stampa, all’indomani della richiesta di incidente probatorio avanzata al gip dalla procura di Roma che sollecitava una nuova perizia medico legale sulle lesioni subite da Cucchi, conseguenza di un “violentissimo pestaggio da parte di carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia”.
In quella nota, Del Sette, che all’epoca del caso Cucchi era capo dell’ufficio legislativo del ministero della Difesa, definì la vicenda “estremamente grave” e “inaccettabile per un carabiniere rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti”, e si disse “determinato nel ricercare fino in fondo la verità”, senza però arrivare a delegittimare l’Arma.
“Quel mio comunicato era rivolto all’interno dell’Arma – ha aggiunto in udienza – ma anche all’esterno. Volevo chiarire all’opinione pubblica, e in particolare alla famiglia Cucchi, quale fosse la nostra posizione. Scrissi quel comunicato di mio pugno dalla prima all’ultima riga”.
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Il generale ha anche spiegato il motivo di quel suo intervento: “Si dice che il tempo è galantuomo, ma in vicende come queste, il tempo rischia di fiaccare le motivazioni degli uomini – aggiunge Del Sette –, per questo ho agito in prima persona. Era dovere istituzionale dell’Arma capire come fossero andate le cose. Volevo che i carabinieri riferissero alle autorità”.
In base a delle verifiche fatte dall’allora generale Vincenzo Giuliani, braccio destro di Del Sette, si evidenziarono ombre sulle indagini del 2009.
“Non tutti gli aspetti di quella vicenda furono verificati in modo approfondito e con la necessaria dedizione. Mancavano le verifiche approfondite sulle fasi dell’arresto. È emerso che Cucchi venne trasferito alla Compagnia Casilina – ha riferito Del Sette -, ma pur essendo stato citato negli atti, il fotosegnalamento non era stato fatto. Sarebbe stato necessario capire perché il fotosegnalamento non era stato fatto. Inoltre, tutti i militari che avevano avuto a che fare con il detenuto Cucchi avevano scritto le loro annotazioni, tranne i due militari che lo avevano arrestato (D’Alessandro e Di Bernardo, ndr)”.
Rispondendo alle domande del pm, Del Sette si è detto “convinto” che fossero stati inviati dai carabinieri in procura tutti gli atti, nell’ambito dell’inchiesta bis, sul passaggio in caserma di Cucchi e che “nulla fosse stato occultato”. Il generale infine ha specificato di non aver parlato mai del caso Cucchi con il generale Gallitelli suo predecessore: “Non ho mai parlato con il generale Gallitelli di questa storia. Ma non credo che Gallitelli potesse sapere. All’epoca cosa si sapeva? Dov’era arrivata la verità? Era arrivata in basso. Durante il passaggio di consegne con Nistri non ne parlammo, perché non erano emersi nuovi elementi all’epoca”.
Tratto da: Antimafiaduemila
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