di Karim El Sadi
Il presidente Conte ci dica se intende tutelare il profitto o i diritti umani
Cosa rende un governo straniero un interlocutore più o meno ostile? Il tenore delle sue politiche interne e l’indice di democraticità e libertà costituzionali da esso garantite, o i suoi legami commerciali con altre potenze straniere?
Dal giallo del giovane friulano Giulio Regeni, rapito, torturato e ucciso in Egitto con la complicità di agenti dei servizi segreti egiziani, siamo portati a considerare la seconda ipotesi come quella, purtroppo, più attuale. Un caso, il suo, che ancora oggi a distanza di quattro anni (Giulio Regeni muore tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016) attende di essere risolto. In questo lasso di tempo infinito la pretesa di verità e giustizia dei genitori, Paola Deffendi e Claudio Regeni è stata totalmente disattesa. Buchi neri, ombre, misteri avvolgono il caso da troppo tempo ormai. E il governo italiano non ha mai dimostrato con i fatti di voler scavare a fondo nella vicenda, anche a costo di far saltare decennali intese diplomatiche e commerciali con Il Cairo.
Indagini insabbiate
Le autorità egiziane si sono rese responsabili di una sibillina attività di depistaggio delle indagini fin dai primi attimi del ritrovamento del corpo di Giulio, abbandonato nel fossato dell’autostrada che da Il Cairo porta ad Alessandria. Ben quattro sarebbero i depistaggi attuati dalle autorità egiziane per tutelare l’immagine del Paese e incolpare soggetti stranieri del delitto, come sostengono i procuratori di Roma, titolari dell’inchiesta, Sergio Colaiocco e il procuratore facente funzioni di Roma, Michele Prestipino.
Un primo depistaggio gli inquirenti l’hanno riscontrato con l’autopsia. Dai primi esami medici eseguiti da Il Cairo era emerso incredibilmente che Giulio fosse morto per incidente stradale. Un secondo depistaggio lo abbiamo con il movente sessuale, sostenuto dagli investigatori egiziani. E gli ultimi, invece, inerenti ad una presunta lite tra Regeni e un soggetto straniero il giorno precedente il suo sequestro. Tutte piste avallate dalla procura egiziana e smentite categoricamente, con prove alla mano, dall’intenso lavoro di indagine dei colleghi romani e del Ros dei Carabinieri che, piuttosto, ritengono che il ricercatore friulano fosse finito “nella ragnatela della National Security (i servizi di intelligence egiziani)”, tessuta anche grazie alla complicità delle persone più vicine a Giulio al Cairo. Una ragnatela nella quale, hanno affermato chiaramente in Commissione d’inchiesta i procuratori Colaiocco e Prestipino lo scorso dicembre, Giulio Regeni è finito già nell’ottobre 2015.
Quindi gli apparati egiziani della National Security per mesi avrebbero pedinato Giulio Regeni; Avrebbero organizzato il suo rapimento; contribuito al suo omicidio e infine al depistaggio delle indagini. Appare evidente, per cui, che l’omicidio di Giulio Regeni altro non è che un omicidio di Stato. Uno dei tanti che hanno macchiato la storia recente del Mediterraneo. In questo quadro di clamorose cointeressenze, complicità e reticenze istituzionali si inserisce la scarna collaborazione della procura egiziana che talvolta ha dimostrato un totale e preoccupante disinteresse nella ricerca della verità. Lo dimostrano, ad esempio, le continue richieste di risposta alla rogatoria del 28 aprile 2019 della procura di Roma, ritenuta determinante, nella quale, oltre a venir spulciate una ad una alcune dinamiche sospette precedenti e successive al delitto, viene richiesto di sentire un testimone che avrebbe ascoltato le rivelazioni di Magdi Ibrahim Abdel Sharif, uno dei cinque indagati della National Security insieme al generale Tabiq Sabir, inerenti alle modalità del sequestro di Regeni. Da oltre un anno la procura di Roma è in attesa di riscontri sulla rogatoria da parte de Il Cairo che ancora oggi fa orecchie da mercante. E se le risposte non dovessero arrivare è probabile che il caso Regeni potrà essere archiviato nell’arco di qualche mese.
Diritti umani calpestati dal regime
Di fronte a questa situazione, rimasta pressomodo invariata negli ultimi quattro anni, i vari governi susseguitisi in Italia, dal governo Renzi, passando per il governo Gentiloni e per ultimo il governo Conte, hanno dimostrato tentennamenti nell’affrontare un regime, quello egiziano, che lede i diritti umani. Un atteggiamento opposto a quello avuto, per esempio, nei confronti di altri “regimi” accusati di crimini dello stesso genere, come il Venezuela di Nicolàs Maduro o la Siria di Bashar Al Assad. Anche il governo di Abdel Fattah Al Sisi, a sentire le cronache, è notoriamente repressivo nei confronti di dissidenti, attivisti, pacifisti e intellettuali. Da quando il generale è salito al potere con un colpo di Stato nel luglio del 2013, spodestando il leader dei Fratelli Musulmani Mohammad Morsi, unico presidente democraticamente eletto d’Egitto, gli egiziani respirano aria tesa. Sparizioni, sequestri e repressioni militari sono all’ordine del giorno. Solo a fine settembre il regime ha arrestato arbitrariamente, in meno di una settimana, 3000 persone scese in Piazza Tahrir per protestare pacificamente contro la corruzione dilagante nel governo di Al Sisi e la povertà diffusa nel Paese (si calcola un tasso di povertà attorno al 60%). Attualmente in carcere si trovano 118 minori e più di 200 donne. E molti detenuti, soprattutto oppositori politici e studenti universitari, vengono quotidianamente torturati dai carcerieri del regime. Uno di questi è lo studente egiziano della facoltà degli studi di Bologna Patrick Zaki, rapito e torturato in Egitto da inizio febbraio, ancora in attesa di essere liberato. Al Sisi è artefice di politiche criminali non solo all’interno dei suoi confini, ma anche nella vicina Striscia di Gaza. Mentre l’ex presidente Mohamed Morsi, ingiustamente condannato a 40 anni di carcere dopo il golpe e morto in cella in condizioni poco chiare un anno fa, aveva tentato un allentamento della morsa sionista sull’economia di Gaza facilitando le ridotte libertà di movimento dei palestinesi con l’apertura del valico di Rafah, Abdel Fattah Al Sisi ha invece apertamente appoggiato la linea repressiva israeliana contribuendo all’isolamento della Striscia e dei quasi 2 milioni di palestinesi che vi abitano. Questa, purtroppo, è la realtà dei fatti.
“Pecunia non olet”
Eppure, nonostante la repressione militare, la limitazione della libertà di espressione e opinione, la corruzione, le sconsiderate politiche internazionali nello scacchiere medio orientale, il regime di Abdel Fattah Al Sisi gode di un ampio consenso internazionale. Specie da parte dei paesi del Patto Atlantico – guidati dagli Stati Uniti dove, insieme all’Arabia Saudita, Al Sisi si è formato militarmente – che continuano a stringere importanti accordi commerciali con Il Cairo. Su tutti l’Italia che di recente si è guadagnata il podio come principale potenza europea ad aver stretto accordi economici bilaterali di tipo militare con Il Cairo. Dell’ultimo affare si sta discutendo animosamente in questi giorni. Si tratta della vendita ad Al Sisi di due fregate italiane, la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi, costruite per la marina militare italiana ma ora destinate all’Egitto, per un valore di circa 1,2 miliardi di euro. Alcuni l’hanno definita come la “commessa del secolo”, alla quale probabilmente seguirà una seconda tranche di vendita di armamenti, che riguarda la fornitura di altre quattro fregate multiruolo prodotte da Fincantieri-Leonardo. Venti pattugliatori che potrebbero essere costruiti nei cantieri egiziani, 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346. Una trattativa di vendita squisitamente politica durata 10 mesi che, dopo un periodo di congelamento dovuto all’opposizione del partito Liberi e Uguali e di alcuni deputati del M5S e Pd, è stata sbloccata con una telefonata solo qualche giorno fa dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte in persona. Oggi è arrivato anche l’ok del consiglio dei ministri. Restano solo da sbrigare alcune formalità con l’ultima firma di un ambasciatore e poi Abdel Fattah Al Sisi avrà le sue navi da guerra. Con buona pace dei familiari di Giulio Regeni e di chi in questi anni ha combattuto per la ricerca della verità e giustizia sulla morte di Giulio rifiutando ogni forma dialogo con l’Egitto. “Questo governo ci ha traditi. – sono state le parole di indignazione dei familiari del giovane – Perché ogni volta che si chiude un accordo commerciale con l’Egitto, ogni volta che si certifica che quello di Al Sisi è un governo amico, tirano in ballo il nome di Giulio come a volersi lavare la coscienza. No, così non ci stiamo più”. Il riferimento è chiaro ed è diretto al presidente Conte il quale ha garantito che il via libera alla vendita delle fregate all’Egitto non intaccherà la pretesa di collaborazione dell’Italia a Il Cairo sul caso Regeni. Veritas filia temporis (la verità è figlia del tempo), verrebbe da dire usando un latinismo. Di certo c’è, però, che la vendita di armamenti al regime Al Sisi rappresenta a tutti gli effetti una pugnalata alla dignità e all’onorabilità dei genitori di Giulio che, delusi dalla miriade di promesse disilluse dai vari ministri, vice ministri e sottosegretari susseguitisi negli ultimi anni, hanno annunciato di non voler più prestarsi “a nessuna presa in giro da parte degli esponenti di questo governo”.
Conte parli
Nel frattempo, “alla luce degli ultimi rilevanti sviluppi in ordine alle relazioni bilaterali italo-egiziane”, il premier Giuseppe Conte è stato chiamato a riferire “urgentemente” di fronte alla commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Regeni dal presidente Erasmo Palazzotto. Ci auspichiamo quindi che a Palazzo San Macuto il presidente chiarisca una volta per tutte se il suo governo intende tutelare i diritti umani o il profitto. Se intende scavare a fondo nella vicenda dell’omicidio Regeni e interrompere ogni intesa e rapporto diplomatico con Il Cairo. O se, a suon di buone parole e corali promesse, preferisce indagare smuovendo solo la sabbia in superficie senza scavare a fondo per non intaccare i fiorenti accordi economico-commerciali con l’Egitto. I genitori di Giulio meritano una risposta. L’Italia merita una risposta.
Tratto da: Antimafiaduemila
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