Di Tobias Follett e Antonella Beccaria
È uno dei misteri più agghiaccianti d’Italia: l’apparente suicidio nel febbraio 2004 di un brillante urologo legato a un intervento chirurgico al boss di Cosa Nostra. ANTIMAFIADuemila rivela l’esistenza di una intercettazione ambientale del 2003 in cui alcuni fedelissimi di Provenzano decidono di assassinare un dottore che rifiutò di assistere il boss latitante
Nell’autunno 2003, era ancora il boss mafioso più ricercato d’Italia: Bernardo Provenzano – catturato solo l’11 aprile 2006 in una masseria di Montagna dei Cavalli, frazione Ficuzza, nelle campagne di Corleone, suo paese d’origine, dopo una latitanza durata 43 anni – soffriva a causa di un tumore alla prostata per il quale attendeva un intervento chirurgico in Costa Azzurra. Pochi giorni prima del viaggio in Francia, tuttavia, avrebbe ricevuto un secco no da un medico a cui i suoi uomini si erano rivolti per prestargli le cure di cui aveva bisogno. Per questo, i gregari del boss decisero: a quel dottore, macchiatosi di una colpa imperdonabile a causa del suo rifiuto, «andava fatta una doccia». In altre parole, doveva essere eliminato.
Queste informazioni – finora inedite – sono contenute in un’intercettazione ambientale risalente gli ultimi mesi del 2003. Ai tempi la procura di Roma aveva aperto un fascicolo per la ricerca latitanti e aveva piazzato le sue microspie in una masseria dove, insieme a Provenzano (la cui voce venne registrata per la prima volta dall’inizio della sua latitanza), c’erano sei o sette uomini, tra cui il fedelissimo Giuseppe Lo Bue. Quegli uomini, per varie volte nel corso della giornata, ripeterono la loro condanna a morte senza, tuttavia, pronunciare mai il nome del medico. Ora, però, l’esistenza di questa intercettazione potrebbe contribuire alla riapertura delle indagini sulla morte di Attilio Manca, giovane e brillante urologo siciliano, morto nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004 a Viterbo, la città in cui lavorava da meno di due anni all’ospedale Belcolle.
Un suicidio che non convince
A confermare la rilevanza della notizia è Fabio Repici, l’avvocato che assiste i genitori di Attilio, Gioacchino Manca e Angela Gentile. Per oltre 18 anni, la loro battaglia è ruotata intorno a una certezza: il medico, che aveva 34 anni quando morì, non si è suicidato con un’overdose da eroina, aggravata dall’assunzione di uno psicofarmaco, il Tranquirit, a base di benzodiazepine. Ma è stato ucciso perché coinvolto a sua insaputa nelle cure a Bernardo Provenzano e per farlo fuori è stata simulata un’iniezione letale da sostanza stupefacente. Del resto, i due fori da siringa erano nel braccio sinistro, ma Attilio Manca, oltre a non essere un tossicodipendente, era un mancino puro e, per ammissione di molti colleghi e conoscenti, non era in grado di svolgere alcuna attività con la mano destra.
Nel corso degli anni, cinque collaboratori di giustizia – Giuseppe Setola, Carmelo D’Amico, Stefano Lo Verso, Giuseppe Campo e Antonino Lo Giudice – hanno detto ai magistrati che quello di Manca era un omicidio. Si aggiunge un altro fatto: il 16 febbraio 2021, dopo una condanna in primo grado, è stata assolta una donna romana, Monica Mileti, dall’accusa di aver fornito ad Attilio la dose fatale di eroina. Ma c’è anche un altro elemento che fa propendere per la tesi della famiglia, l’omicidio: Attilio, nel giugno e nell’ottobre 2003, andò in Costa Azzurra e la circostanza è accertata dalle dichiarazioni dei genitori, che ricevettero da lui una telefonata, e dai tabulati telefonici.
Attilio Manca con i genitori, Gino e Angela
Presto nuovo esposto della famiglia
Dunque, dopo essere stata dimenticata per quasi due decenni, la riemersione dell’intercettazione del 2003 potrebbe fornire un ulteriore elemento per la richiesta di riapertura delle indagini. Richiesta che, come ha annunciato nei giorni scorsi l’avvocato Repici, verrà depositata a Roma entro un mese. Lì confluiranno anche le affermazioni contenute nelle motivazioni della sentenza pronunciata dalla corte d’Appello di Reggio Calabria il 6 ottobre 2021 e depositate lo scorso 4 aprile. Imputato Rosario Pio Cattafi, ritenuto affiliato dall’ottobre 1993 al marzo 2000 alla famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto, nel Messinese. Per questo il siciliano, che si definisce avvocato, è stato condannato a sei anni di reclusione. E in un non breve passaggio delle motivazioni si parla anche della morte di Attilio Manca e delle affermazioni di uno dei cinque pentiti, Carmelo D’Amico, il principale collaboratore di giustizia barcellonese. Questi – venendo ritenuto credibile – aveva dichiarato «che, intorno al 2004, Salvatore Rugolo [cognato del boss Giuseppe Gullotti, ndr], che al pari di [Francesco] Cambria e Cattafi, intrattenevano, per conto della cosca, i rapporti con le Istituzioni deviate, gli aveva riferito che era stato proprio Cattafi, su incarico di un generale dei carabinieri, a condurre il […] medico presso il luogo, in cui era rifugiato Bernardo Provenzano, bisognoso di cure urgenti. Proprio per evitare che si potesse disvelare il rifugio di Provenzano, Manca è stato ucciso dai servizi segreti deviati». Inoltre a D’Amico, «dopo il 2006, al tempo in cui era ristretto a Milano Opera, Antonino Rotolo [rilevante affiliato all’articolazione palermitana di Cosa nostra, ndr] ha confermato che Provenzano era stato curato in Francia da Manca che poi era stato ucciso dai servizi segreti».
«Attilio è morto segnato da una terribile macchia», ha detto Angela Gentile, la madre di Attilio Manca. «In tutti questi anni ho sognato almeno di avere la certezza giudiziaria, prima di morire, che fosse stato assassinato». E indagare di nuovo questa vicenda potrebbe portare, oltre alla verità sulla fine di Attilio, anche a nuove informazioni sulle coperture di cui godette Provenzano nei lunghi anni della sua latitanza. Anche su questo sta lavorando la Commissione parlamentare antimafia su proposta delle deputate Piera Aiello e Stefania Ascari. Su loro iniziativa, la Commissione, dopo aver sentito la madre di Attilio Manca e l’avvocato Repici, ha effettuato anche le audizioni di quattro dei collaboratori di giustizia che hanno parlato del caso: Carmelo D’Amico, Giuseppe Campo, Stefano Lo Verso e Biagio Grasso.
Tratto da: Antimafiaduemila
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