Di Pietro Grasso
Borsellino è sopravvissuto solo 57 giorni a Falcone. Sapeva che sarebbe stato ucciso, lo sapeva da molti anni: scherzava con Giovanni, “fino a che tu sei vivo non ho nulla di cui preoccuparmi”. Poi la strage di Capaci del maggio 92: la corsa contro il tempo per cercare la verità sulla morte dell’amico, la fretta di prepararsi spiritualmente al suo destino, i tentativi di evitare di coinvolgere la scorta.
Il 19 luglio 1992 un’autobomba piazzata in Via D’Amelio uccise lui e quasi tutta la sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Fa ancora rabbia sapere che lo Stato non ha saputo e voluto proteggere Paolo fino in fondo.
Cosa rimane trent’anni dopo di quel terribile giorno d’estate?
Rimane una insopprimibile sete di verità. Sappiamo che sulla strage di via D’Amelio è stato commesso un gravissimo depistaggio. Molte verità sono state accertate grazie a chi non ha smesso di volere giustizia: e noi, costi quel che costi, dobbiamo pretenderla. Trent’anni dopo rimane anche la mafia: una mafia invisibile e non più sanguinaria ma capace di avvelenare le nostre terre, la nostra economia, la nostra società.
Rimane, infine, l’esempio di Paolo Borsellino: un servitore dello Stato che non aveva alcuna intenzione di essere un eroe ma solo di fare il suo dovere.
E noi, tutti noi, dobbiamo provare ogni giorno a fare il nostro.
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