El Bolsón, Argentina. Il 10 gennaio 2017, oltre 200 gendarmi effettuarono un’operazione di blocco a 80km da Esquel, Argentina. Il cinguettio degli uccelli e il pacifico silenzio che normalmente custodisce quella regione patagonica, fu bruscamente interrotto dal suono del terrore. In pochi minuti venne chiuso ogni accesso al territorio recuperato dalla comunità Mapuche Pu Lof Cushamen, preludio di una repressione smisurata.
All’epoca i membri della comunità raccontarono pubblicamente le azioni violente e la repressione subite: colpi, bastonate, tirate di capelli alle donne e molestie contro i bambini e le bambine della comunità. Le donne e i bambini raccontarono che cercarono di proteggersi nella “ruca mayor” (abitazione comunitaria), e fu allora che la Gendarmeria li lasciò lì rinchiusi, fin quando decisero di entrare con la forza. Alcune delle testimonianze denunciano che i bambini e le bambine erano atterriti dalla presenza di uomini armati, che le donne vennero trascinate a terra, furono distrutte delle abitazioni, animali rubati e uccisi, dando forma ad un episodio dantesco che si impose sulla tranquillità caratteristica di quella zona.
Almeno dieci persone furono arrestate, alcuni membri della comunità ed altre persone che, di fronte alla repressione in atto, si recarono immediatamente sul posto in gesto di solidarietà.
Quel 10 gennaio, nel mezzo del conflitto per il territorio recuperato, il giudice federale Guido Otranto aveva ordinato di “rimuovere e sequestrare gli ostacoli materiali eventualmente posizionati sulla linea ferroviaria del Viejo Expreso Patagónico ‘La Trochita’…”. L’ordine non prevedeva di sfrattare la comunità, ma di liberare il passaggio del treno turistico a seguito di un blocco stradale. L’ordine emesso non trova correlazione con la portata dell’azione messa in atto, senza alcun controllo giudiziario sullo spiegamento delle forze di sicurezza, che in tal modo si sentirono autorizzate a commettere ogni tipo di abuso e ogni tipo di violenza. Il giorno dopo, 11 gennaio, questa volta senza alcun mandato giudiziale, la polizia di Chubut ritornò sul territorio attaccando la comunità mapuche. Membri della Lof raccontarono che le forze spararono contro i membri della comunità lasciando diversi feriti, alcuni gravi.
Il 21 dicembre 2020, a tre anni dall’accaduto, sono stati processati coloro che accorsero per mostrare solidarietà ai mapuche di fronte alla feroce repressione nella Pu Lof Cushamen, che fu l’anticamera della sparizione forzata seguita dalla morte di Santiago Maldonado, avvenuta alcuni mesi dopo, esattamente il 1° agosto del 2017.
Le persone accorse alla Lof andarono alla ricerca degli animali scappati a causa dei numerosi spari degli agenti della Gendarmeria Nazionale Argentina, ma subirono un’imboscata e furono colpiti dalla polizia di Chubut e dal personale della compagnia “Tierras del Sud Argentina”, guidati dal maggiordomo Gonzalo Graña, a bordo di un camioncino, affiancato da altri uomini armati. Le persone furono prima intimate e poi arrestate, condotte al commissariato di Maiten (Chubut) e torturati dalla polizia locale.
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I detenuti, dopo aver subito vessazioni (ed essere risultati “scomparsi” per ore), furono portati alla città di Esquel e in seguito assolti dalla giustizia, poiché non esisteva prova evidente delle accuse che la compagnia di Luciano Benetton lanciava contro di loro, a proprio vantaggio. Furono imputati di “attentato a pubblico ufficiale aggravato da uso di armi” e “di essere più di tre le persone coinvolte”.
Ciononostante, tra il 2018 e 2019, furono nuovamente portati dinnanzi alla Corte in un processo carico di irregolarità, dal quale finalmente furono assolti: due di loro per “assenza di reato” (il giudice Martín O`Connor riconosce “l’assenza di elementi probatori e l’inesistenza di consistenti prove imparziali” e i restanti per “mancanza di prove”).
Tuttavia, attualmente il Tribunale Federale di Comodoro Rivadavia, nella persona del Giudice Enrique Guanziroli, ha deciso di procedere nuovamente contro la comunità mapuche e chi espresse solidarietà alla causa, per gli stessi fatti accaduti in quel 10 gennaio, in questo caso l’imputazione è di “presunto blocco stradale” e “presunta detenzione ed uso di materiale esplosivo”.
“Tutti i testimoni sono gli stessi poliziotti che ci hanno inseguito e colpito. Purtroppo già sappiamo come funziona tutto qui, e continueremo a lottare fin quando sarà fatta giustizia e l’intera vicenda sarà visibile a tutti”, ha detto Ivana Huenelaf, una delle imputate.
Il processo si è svolto in modalità virtuale, con gli imputati presenti dal Centro Culturale Eduardo Galeano, di El Bolsón, Argentina. I testimoni della difesa (molti di loro vittime della repressione messa in atto dalle forze armate in quel momento), inizialmente dovevano deporre dalla prefettura 35 della Gendarmeria di El Bolsón, ma il tribunale all’ultimo momento ha accolto la richiesta dell’avvocato Edgardo Manosalva confermando la possibilità di farlo dal C.C Galeano. I testimoni del Ministero Pubblico avrebbero deposto dal tribunale di Esquel.
Le parole di Ivana Huenelaf (una delle imputate) sono state decisive:
“È un processo abbastanza toccante, perché significa raccontare di nuovo la repressione di cui siamo stati oggetto da parte di questo Stato. Sono secoli che vengono molestate le donne, il popolo mapuche e i popoli originari. Ma siamo anche molto decisi e felici, perché nel processo è chiaro che non hanno elementi per sostenere quello di cui ci accusa la Polizia. Sono processi montati, è chiaro che non possono sostenerlo, addirittura c’è stata una sospensione di tre ore per leggere le carte del processo. A noi serve per ritrovarci e parlare tra di noi e condividere. Mi sento molto fortificata e grata della solidarietà (…) Come dice una delle lamien, fu l’anticamera di tutta la repressione vissuta con Santiago Maldonado, con Rafa (Nahuel). Ma siamo fortificate, perché non lo viviamo individualmente ma come comunità, come società. Oggi non solo il popolo mapuche è perseguitato e processato, ma anche tutti i dissidenti che scendono in piazza a manifestare per chiedere diritti, stipendi, case, territori. Questa è la nostra battaglia”.
I volti pieni di lacrime di chi ha testimoniato non erano segno di debolezza, ma della forza di un popolo che si rialza una ed un’altra volta, sempre con più forza di fronte ad ogni attacco del potere.
Elisa Osi Nancunao e l’avvocato Edgardo Manosalva
Edgardo Manosalva, avvocato difensore, ha affermato:
“Siamo a metà della prima giornata del processo. Siamo molto tranquilli. Abbiamo visto che si sta procedendo nel ratificare e rafforzare la posizione giuridica che già avevano i cinque accusati (…).”
“Tranquilli ma in allerta allo stesso tempo. Come già abbiamo detto questo processo non ha niente di giuridico, non è legale ma puramente politico. Sempre diretto e promosso dal Ministero di Sicurezza della Nazione (al tempo guidato da Patricia Bullrich, Pablo Noceti, Gerardo Cané e tutti i vertici del ministero) che faceva pressione, come ammise il pubblico ministero Óscar Oro, dicendo che subivano loro stessi quella pressione in modo diretto. È successo ad Otranto, a Lleral nella causa di sparizione forzata e nell’habeas corpus di Santiago Maldonado.Chiaramente, lì cedettero alle pressioni del Ministero di Sicurezza. Noi abbiamo percepito) questo in ogni momento, sia il giudice che il pubblico ministero non avevano strumenti. Soprattutto nel processo per presunta detenzione di materiale esplosivo, che è quanto ormai accertato processualmente. (…) Siamo tranquilli, perché sappiamo come verranno gestite le testimonianze dei poliziotti che devono ancora deporre. È dimostrato che mentirono spudoratamente nel processo provinciale, era palese la falsa testimonianza di molti di loro, tranne del perito della scientifica che disse che le bottiglie che lui fotografò non avevano odore di nafta, né liquido infiammabile. (…) Infatti, il pubblico ministero Avila a suo tempo si pronunciò per l’annullamento di questa causa. La persona che doveva attestare e che aveva firmato il verbale, ammette nel processo di non essere mai stato presente né al ritrovamento delle presunte bottiglie, né quando le stesse sarebbero state ritirate, né tanto meno quando furono fotografate. Ugualmente gli altri testimoni. Due subalterni di Fernández, sappiamo già come agiscono le forze di sicurezza dove il verticismo e l’autorità incidono fortemente, sappiamo che furono spinti a “favorire il capo”. Per quanto riguarda Gonzalo Graña (maggiordomo di Benetton), di vocazione antimapuche e che si presta a qualsiasi cosa, è stato dimostrato che ha mentito totalmente sia durante il processo che quando rilasciò le sue dichiarazioni nella Procura federale e nel tribunale di Otranto. Oggi torna a deporre, convocato in questo nuovo processo dal pubblico ministero”.
“I testimoni di oggi della Procura, gli agenti di polizia, non sapevamo cosa potessero dichiarare. Certamente non sono riusciti a identificare nessuno degli accusati per il presunto blocco stradale. In questo caso, i testimoni hanno sostenuto la tesi della difesa a favore degli imputati”.
Riguardo l’accusa contro la polizia e il pubblico ministero, Manosalva è stato molto chiaro: “Non c’è stata alcuna svolta nelle indagini da parte del pubblico ministero. Ricordiamo a tutti che per i fatti risalenti al 10 gennaio, al momento di dichiarare il giorno 12, il processo si divise in due filoni diversi. Da una parte, la presunta aggressione a pubblico ufficiale, lesioni e resistenza in sede giudiziaria provinciale. Ma lo stesso giudice del controllo detentivo, di fronte alla forza ed eloquenza delle sette testimonianze, ordinò direttamente di aprire un nuovo fascicolo di indagini presso il Ministero Pubblico di Esquel, per indagare sulla condotta da loro denunciata: lesioni gravi, tentativo di omicidio, tortura, vessazioni e pressioni illegali da parte dell’orda poliziesca entrata in azione, molti dei quali saranno sentiti in questo processo”.
“Una delle aspettative che abbiamo è che questa sentenza contribuisca a mettere le cose al giusto posto. Se c’è qualcosa di cui il sistema giudiziario argentino è carente è un approccio dalla prospettiva dei popoli originari. Per niente”.
“Per il Tribunale provinciale è stato chiaramente dimostrato che il tutto rientri in qualcosa di più grande e trascendente, cioè la disputa tra una società di capitali, Compañía de Tierras del Sud Argentino S. A. e una comunità appartenente ad un popolo originario ancestrale. Pertanto il protocollo che gli agenti dello Stato dovevano applicare è completamente opposto a quello che hanno fatto (…)”.
“Dietro queste accuse c’è la responsabilità di Luciano Benetton. La sua compagnia è direttamente coinvolta nei fatti aberranti che causarono orrore quel giorno nei bambini e nelle donne della comunità; i suoi scagnozzi hanno diretto le azioni della polizia locale del Maitén (Chubut) e della stampa egemonica che ancora oggi occulta le azioni del proprietario terriero italiano. La stessa stampa, il mainstream, non era presente in questo processo essendo fedele all’establishment come d’abitudine, e il compito di informare la società viene lasciato ai media alternativi e comunitari”.
Esiste un processo nella giustizia Argentina a carico di Luciano Benetton per queste azioni contro i diritti umani, ma viene lasciata nel cassetto dai giudici di turno alleati del potere economico. Il filantropo italiano, con un’azienda che dirige la Fondation Sisley-D’Ordation (Francia), Unhate Fundation (USA), Fondazione Studi Ricerche (Italia), e Fondazione Museo Leleque (Argentina), ha le mani sporche del sangue dei popoli originari.
Il proprietario terriero della Patagonia è responsabile di torture, vessazioni e aberrazioni iniziate nel 2015 contro le comunità mapuche che vogliono solo far valere i propri diritti, poiché le terre sottratte ai loro antenati appartengono a loro e la Costituzione l’Argentina avalla il recupero di queste terre.
Non sappiamo quanto ci vorrà ancora affinché la verità venga alla luce, ma quello che sappiamo è che viviamo tempi di cambiamenti, di rivoluzione, e gli emarginati, gli oppresso, i “nessuno”, quelli “che non esistono, seppur esistano, che non parlano lingue, ma dialetti”, dei quali Eduardo Galeano ci parlava; iniziano a perdere la paura del “padrone” e a gridare libertà in questo “sud straniero”.
Copertura di FM Ali, Nómadas Comunicación Feminista, La Manija, Radio la Negra, Revista Cñitrica, Tribunal ético feminista di Abya Yala, Radio Fogón e Antimafiadosmil.
(22 dicembre 2020)
Tratto da: Antimafiaduemila
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