Solo ora che si è impiccato nel CPR di Torino sappiamo il suo nome, solo da morto diventa una persona, prima era un migrante, un clandestino, un recluso in attesa di espulsione.
Mamodou Moussa Balde avrebbe compiuto 23 anni il 29 luglio, veniva dalla Guinea, era in Italia dal 2017 e non ha retto alla violenza con cui il nostro paese ed il nostro sistema lo hanno accolto. Aveva vissuto di lavori precari, qualche volta passando in Francia dalla Liguria dove normalmente stava.
Nonostante una vita di precarietà e sfruttamento aveva trovato il modo di studiare da noi e di prendere il diploma di terza media nei corsi per adulti. Era venuto in Italia ed in Europa sperando di cambiare la propria vita e magari quella della sua famiglia, rimasta in Africa, ma poco alla volta proprio qui la vita gliel’hanno distrutta.
La nostra società si presenta al resto del mondo con tutte le sue promesse di benessere, ricchezza, lusso, per poi far precipitare nello sfruttamento e nell’esclusione violenta chi giunge qui da quel mondo perché ha creduto a quelle promesse.
Moussa Balde si è visto strappare le sue speranze e la vita poco a poco, ma ha sempre lottato, fino al giorno in cui è stato costretto a chiedere l’elemosina davanti ad un supermercato di Ventimiglia. Là dove transitano e vivono nell’abbandono i migranti che vorrebbero andare in Francia. Lì Moussa Bale ha cominciato a morire.
Alcuni teppisti lo hanno improvvisamente aggredito e massacrato a bastonate, con la ferocia che solo i linciaggi razziali manifestano. Lo accusavano di aver rubato un telefonino che non è stato mai trovato né su di lui, né altrove ed hanno infierito sul suo corpo anche quando non si muoveva più.
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Questi infami vigliacchi sono stati arrestati, incriminati per aggressione e subito rilasciati, con il questore di Imperia che si é subito affrettato a dichiarare che non c’erano motivi razziali nel pestaggio. Un gruppo di violenti bianchi infierisce su un uomo di pelle nera come non farebbe su nessun altro, ma per lo Stato questa non è violenza razzista. Come per i poliziotti di Minneapolis.
Mentre i suoi torturatori tornavano liberi, Moussa lottava per la vita in ospedale e alla fine vinceva. Ma subito dopo ecco che lo colpiva di nuovo la violenza.
Quello Stato che non è stato capace di rendergli un minimo di giustizia, lo ha subito arrestato come clandestino e portato in una di quelle vergogne disumane, quei carceri per migranti privatizzati come negli USA, chiamati CPR.
In quello di Torino Moussa è stato posto in isolamento e lì ha potuto incontrarlo l’avvocato Gianluca Vitale, instancabile nell’impegno per tutelare i migranti dal razzismo sistemico della nostra società.
Vitale ha subito colto la sofferenza psichica di Moussa, che l’isolamento nel carcere ovviamente accresceva. Si preparava a dar battaglia per farlo almeno collocare in una condizione più umana e protetta, come suggerivano anche esperti psichiatri, ma non ha fatto in tempo.
In una notte di orrore, solo recluso e isolato, travolto dal dolore e dall’angoscia, mentre i suoi carnefici erano tranquillamente liberi, Moussa si è impiccato.
Secondo voi questo è davvero un suicidio, o non piuttosto un assassinio compiuto dalla nostra società e dalle nostre istituzioni, ognuna con la sua parte, che assieme hanno formato il cappio che ha strangolato Moussa?
Io non provo rabbia e dolore solo per lui ed i suoi cari, per i suoi fratelli di sventura e sfruttamento, ma anche per noi. Perché noi corriamo il rischio di abituarci al veleno di una società mostruosa, ed esserne intossicati fino alla follia.
Mamadou era un perseguitato politico che inascoltato chiedeva asilo, era africano, era povero, era sofferente nell’anima, cioè riassumeva in sé le condizioni umane verso le quali il nostro sistema mostra tutta la sua spietatezza. Se lo vogliamo ricordare e onorare dobbiamo odiare con tutto il nostro cuore il sistema che lo ha ucciso e lottare per rovesciarlo.
Tratto da: Contropiano.org
Fonte foto: Torinoggi
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