Alitalia è probabilmente giunta alla fine della sua corsa che l’ha vista essere negli anni una delle più grandi aziende italiane, sicuramente la più conosciuta nel mondo. Non si è trattato di una morte imprevista, indolore ed immediata. Hanno deciso per una fine lenta, una lunga agonia durata decenni che ha prodotto irrimediabilmente effetti nefasti sui lavoratori e sull’economia del paese, ormai priva di un vettore aereo in grado di supportare il turismo ed il made in Italy. Quello che ne uscirà, quell’ITA che già nel nome rappresenta una fioca contrazione di quel che era Alitalia, non sarà che la piccola e brutta copia di quel che era la compagnia di bandiera italiana.
Peccato, perché sino a pochi mesi fa, nonostante le enormi difficoltà che si sarebbero incontrate, sarebbe stato possibile ricostruire invece un’Alitalia più grande, più efficiente, più adeguata al ruolo di motore e traino del sistema economico del paese. Una nazionalizzazione vera, accompagnata da un management esperto e concentrato sull’obiettivo del rilancio, avrebbe rimesso in moto energie e forze tali da superare qualsiasi ostacolo si fosse frapposto allo sviluppo della compagnia e insieme ad essa dell’intero settore del trasporto aereo italiano.
L’analisi dei perché di questa disfatta non può certo essere fatta in poche righe ma la genesi, il peccato originale che ha scosso alle fondamenta la crescita di Alitalia è da ricercare negli accordi mai scritti che decenni fa, nell’ambito della deregulation europea del trasporto aereo e della spartizione economica che ne derivò in questo settore, assegnarono alle sole compagnie aeree Air France, Lufthansa e British il ruolo di vettori globali e agli altri paesi, nella migliore delle ipotesi, un ruolo subalterno.
Ma quel che sta accadendo oggi, oltre a un’importanza dal punto di vista industriale, assume anche altri rilievi a livello sociale e sindacale e, non ultimo, a livello politico.
Dal punto di vista industriale, l’operazione ITA, oggi completamente in mano allo stato, non rappresenta il rilancio di un vettore nazionale ma il ripiegamento verso un’opzione che se lasciata a sé stessa sarà suicida. Una compagnia aerea con 50 aerei o anche con il presunto raddoppio degli aeromobili come previsto dal piano entro il 2025, non può competere con i grandi vettori europei e neanche con le low cost che superano ITA per numero di aerei, diffusione e rete di commercializzazione del prodotto.
Quindi entro due o tre anni ITA o fallirà o dovrà essere ceduta, tutta o in parte, a Lufthansa o Air France. In quest’ultimo caso diventerebbe un settore del vettore proprietario, priva di alcuna autonomia e che servirebbe principalmente a portare passeggeri italiani verso i grandi scali europei per poi volare sulle direttrici intercontinentali, più remunerative e non soggette alla concorrenza low-cost.
Più in generale si tratterebbe quindi della cessione del controllo del trasporto aereo italiano ai tedeschi o ai francesi che lascerebbero intatto anche il predominio del mercato interno alle low cost, con tutte le conseguenze negative che è possibile immaginare dal punto di vista industriale e occupazionale.
Le conseguenze sociali sarebbero e sono evidenti. Una forte contrazione dell’occupazione ed un aumento della precarietà, accompagnate da condizioni normative e salariali che “necessariamente” dovranno adeguarsi ad una improponibile concorrenza con i vettori low cost.
È chiaro, infatti, che se ITA dovrà rifornire soprattutto gli aeroporti di Francoforte e Monaco o di Parigi e Amsterdam, basi rispettivamente dei voli intercontinentali di tedeschi e francesi, il costo dei biglietti dovrà necessariamente essere simile a quello applicato dalle low cost. Per questo motivo già nel primo incontro con il sindacato Alfredo Altavilla, già braccio destro di Marchionne in Fiat, ha affermato che non entrerà in Assaereo (Confindustria) e non applicherà il contratto nazionale del trasporto aereo, a meno che non venga smontato e ricostruito sotto la sua dettatura.
In mancanza di un accordo, da trovare entro il 20 settembre, ITA applicherà ai dipendenti un proprio “regolamento aziendale”. L’azienda, che sta procedendo alla raccolta delle candidature dei dipendenti attraverso una piattaforma on line alla quale può accedere chiunque e non soltanto i lavoratori dell’ex Alitalia, applica quindi la filosofia già sperimentata della scelta del personale più confacente alle sue esigenze, al costo minore possibile. Una procedura indegna che anche dal punto di vista umano e culturale diventa frustrante per chi ha vissuto e lavorato in un’azienda per decenni, colmando con la propria esperienza e disponibilità le lacune della gestione aziendale, sopportando e subendo le assurde operazioni industriali frutto di dirigenze e vertici spesso inadeguati ed incompetenti.
Tra l’altro si intende aumentare a dismisura la produttività e l’orario di lavoro e rivoluzionare completamente la struttura del salario con riduzioni che vanno dal 40 al 20% della busta paga, asseconda del ruolo svolto, rispetto al contratto nazionale e con l’introduzione di “premi” legati alla produttività/valutazione individuale e ai risultati aziendali. Il silenzio di Cgil, Cisl, Uil e Ugl e degli autonomi Anpac e Anpav, mantenuto in questi mesi sull’intera vicenda e il loro abbandono della scena ai soli sindacati di base nella protesta e nella proposta alternativa ad ITA, oggi ricorda quel che accadde in Fiat.
In quell’occasione ci fu la levata di scudi della Fiom, mentre oggi sembra che il Landini “rivoluzionario” di ieri abbia lasciato il passo al Landini segretario nazionale Cgil che non sembra reagire allo stesso modo a chi, come Alfredo Altavilla, era suo acerrimo avversario quando era in Fiat.
I lavoratori sono stanchi e disorientati e la forte reazione ed il dissenso espressi nella prima parte di quest’anno da tanti di loro, hanno lasciato il campo al timore, alla paura di perdere certezze, futuro e lavoro. Infatti, dei quasi 11.000 lavoratori di Alitalia ne verranno assunti da ITA solo 2.800 e la promessa è di arrivare a 5.750 nel 2025. Ma le promesse ed i piani di una compagnia nata male e nella migliore delle ipotesi destinata a essere ceduta, sono solo carta straccia. C’è poi da considerare che le assunzioni riguardano soltanto parte del personale di volo e un certo numero di lavoratori legati strettamente alle attività di volo e allo staff. La manutenzione verrà scorporata e stessa sorte avrà l’handling. Rimane del tutto ipotetica la possibilità di una successiva partecipazione azionaria di ITA in queste attività.
Quanti lavoratori rimarranno del tutto senza lavoro e senza la possibilità di raggiungere la pensione, ancora non è dato sapere. Ma probabilmente il governo cercherà di spostare la “trattativa” con il sindacato dal Piano industriale e dal contratto di lavoro, proprio sulla quantità e la qualità degli ammortizzatori sociali.
Se sul piano industriale e sociale lo scenario in cui è nata questa nuova azienda è del tutto negativo e indica un futuro più che incerto, quel che è necessario valutare attentamente sono anche gli aspetti politici legati all’intera vicenda. Il “governo dei migliori” al cui comando c’è l’indiscusso ed osannato ex governatore della BCE, sta gestendo la partita Alitalia/ITA nel modo più spregiudicato e strumentale possibile.
Oltre al fatto di “cedere” alle condizioni capestro della “sua” Unione europea, Draghi intende procedere ad una destrutturazione completa del sistema contrattuale italiano. Qualche anno fa è stata un’azienda privata (la Fiat) a sfidare il sindacato ed i lavoratori uscendo dal sistema che prevede il contratto nazionale quale strumento di unità e di solidarietà all’interno di uno specifico settore produttivo (quello dei metalmeccanici), proprio come indicato nell’agosto del 2011 dalla lettera all’Italia di Trichet-Draghi (Lettera BCE).
Oggi è invece un’azienda la cui proprietà è interamente in mano al ministro dell’Economia Daniele Franco, cioè pubblica al 100%, guidata dallo stesso Altavilla che lavorò con Marchionne nell’attacco al contratto dei metalmeccanici, a non rispettare la contrattazione nazionale e minacciare di applicare un regolamento aziendale non concordato. La gravità di questo atto, oltre che dal punto di vista sindacale e sociale, è enorme proprio politicamente.
Il “governo dei migliori”, dove convivono la Lega, il PD, i 5stelle e Leu, è artefice di un attacco ai principi di solidarietà contenuti nel sistema del contratto nazionale di lavoro. Nonostante siano passati alcuni giorni, nessuno di questi partiti ha accennato ad una reazione, ad una polemica interna al governo, alla necessità di censurare l’atteggiamento dei vertici ITA e il silenzio di Draghi e di Franco. D’altra parte, Altavilla non avrebbe mai potuto prendere una decisione così importante senza un ok e una indicazione precisa del governo.
Come nel 2008 Alitalia rappresentò il banco di prova per sperimentare il sistema bad-company dove scaricare debiti e lavoratori ritenuti esuberi, oggi ITA diventa la testa d’ariete per scardinare il contratto nazionale e per estendere poi questa prassi a tutti i settori produttivi.
Se lo fa lo Stato che ne dovrebbe essere il garante, chi potrà domani impedire a qualsiasi altra azienda privata di disapplicare contratti e normative nazionali e rinchiudersi nelle meno tutelanti (per i lavoratori) regolamentazioni aziendali, frantumando così i principi di solidarietà che dagli anni ’70 contraddistinguono la contrattazione nazionale?
Il silenzio e la passiva accettazione delle forze politiche e la reazione solo di facciata di Cgil, Cisl, Uil e Ugl sono la prova che si sta cercando di modificare alla radice i già carenti rapporti sociali esistenti, comprimendo sempre più diritti e salari dei lavoratori, alimentando e sostenendo gli interessi economici delle aziende, scaricando gli oneri delle loro ristrutturazioni sul lavoro e sui contribuenti.
La vertenza Alitalia/ITA non è quindi soltanto una vertenza sindacale di settore ma riveste un’importanza strategica nella struttura dei rapporti di produzione nel nostro paese. Servirebbe una vigorosa ed immediata reazione politica e sociale e su questo sperano anche tanti lavoratori e tante lavoratrici del trasporto aereo, come quelli di tanti altri settori produttivi, colpiti in questi anni da licenziamenti e attacchi continui a livello contrattuale e mediatico.
Su questo devono concentrarsi le forze politiche che vogliono opporsi a Draghi, al suo governo e ai partiti che lo sostengono acriticamente. Sull’obiettivo di allargare la vertenza devono ritrovarsi tutte le forze sindacali alternative e di base e indicare ai lavoratori e alle lavoratrici una piattaforma che vada verso un autunno di mobilitazione su pochi e prioritari obiettivi. Non è sufficiente un sacrosanto e necessario sciopero generale, serve una mobilitazione continua, un confronto prolungato sui posti di lavoro, uno scontro ed un conflitto sociale che ridia voce al lavoro e rimetta in discussione questo governo e le forze politiche che direttamente o indirettamente lo sostengono, cioè tutte quelle presenti in Parlamento.
*Ex dipendente Alitalia, per anni coordinatore nazionale Usb. Autore del libro “Sulle ali della dignità”.
Tratto da: Contropiano.org