A colloquio con Nino Di Matteo (prima parte)

A colloquio con Nino Di Matteo (prima parte)

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di Giorgio Bongiovanni

La prescrizione, la riforma della giustizia, la riforma del Csm. Sono solo alcuni degli argomenti trattati in questa prima parte dell’intervista al consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo, che abbiamo raggiunto a Roma. Il magistrato, che per anni si è occupato di importantissime indagini sull’organizzazione criminale Cosa nostra, le stragi, la trattativa Stato-mafia, offre un’analisi a 360° su questi argomenti che sono al centro del dibattito politico.

Dott. Di Matteo, lo scorso ottobre lei è stato eletto con 1184 voti al Consiglio superiore della magistratura. Partirei proprio da qui, dal ruolo di consigliere che lei oggi ricopre. Come sa il nostro giornale ha più volte criticato – in passato, ma anche di recente – prese di posizione dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura che non abbiamo affatto condiviso. Oggi qual è l’aria che si respira?
Faccio parte del Consiglio Superiore della Magistratura da quasi cinque mesi e non sono pentito di avere affrontato questa avventura della candidatura che è poi sfociata nell’elezione. Sul Csm condivido anch’io un giudizio che è di molti: troppe volte in passato, piuttosto che difendere l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura e dei singoli magistrati, si è comportato come ci si comporta nei centri di potere. Mortificando – come è avvenuto per esempio per Giovanni Falcone – le aspirazioni legittime dei magistrati più coraggiosi, esposti e validi. Ed è vero che con quanto emerso da una inchiesta di Perugia, risalente all’inizio dell’estate scorsa, probabilmente ha toccato il punto più basso della sua storia. Ma non dobbiamo rimanere sorpresi, dobbiamo essere indignati e conservare questa indignazione ora e in futuro. I fatti hanno dimostrato che il Re era nudo, che l’Organo di autogoverno dei magistrati stava rischiando di trasformarsi, definitivamente, in un’istituzione non solo collaterale alla politica, ma anche profondamente malata poiché permeata da logiche di esasperato correntismo, di clientela, da logiche che facevano prevalere criteri di appartenenza a correnti o cordate.
Ma è vero pure che quello scandalo può costituire un momento di svolta e di rinascita del Csm. Il mio e il nostro impegno è quello di contribuire a questa svolta. Dobbiamo adoperarci per lavorare con logiche che siano soltanto di trasparenza e coraggio con un fine preciso: tutelare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati e soprattutto di quelli più esposti, più a rischio, quelli che contano esclusivamente sulla propria capacità professionale, sul proprio coraggio e non sono legati – né si vogliono legare – a gruppi di potere di qualunque tipo.
Io sono convinto che tanto si può fare per questa lotta di libertà e di democrazia perché il Csm diventi veramente baluardo dell’autonomia dell’indipendenza della magistratura, così com’era nella intenzione dei Padri Costituenti e nella legge istitutiva del 1958. E’ un’opera, un cammino lungo, un obiettivo difficile da conseguire, ma che sicuramente si può raggiungere puntando ad un cambiamento che coinvolga anche la base. I mali che si sono evidenziati in tutto il loro clamore con l’inchiesta di Perugia, le prassi odiose – ora finalmente sotto gli occhi di tutti – dovranno essere abbandonate non soltanto da chi fa parte degli organi di autogoverno, ma da tutti i magistrati. Che dovranno essere capaci di rinunciare a quelle logiche di carrierismo, di corsa a tutti i costi agli incarichi direttivi e semi-direttivi, di burocratizzazione, di gerarchizzazione che hanno caratterizzato gli ultimi anni della storia della magistratura italiana.

Lei ha parlato della necessità di una “svolta etica della magistratura”. Che cosa intendeva dire?
Senza volermi ergere a moralista io credo che la magistratura italiana – prima ancora di affrontare i problemi legati alla efficienza del servizio Giustizia – debba recuperare nei fatti l’orgoglio che deriva dal suo passato. Che non è stato contrassegnato solo – e già sarebbe tanto – dai molti colleghi che hanno sacrificato la vita per la Giustizia, ma anche da un dato che non si può disconoscere: è stata capace di essere in prima linea nel tentativo di applicare veramente la nostra Costituzione. In prima linea non soltanto nella lotta al terrorismo e alla mafia, ma nell’azione quotidiana di cercare di rendere la legge davvero uguale per tutti; in prima linea per dare libertà e dignità ai più deboli; in prima linea perché il secondo comma dell’Art. 3 della Costituzione* – e cioè l’invito a rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza, sancita dal primo comma – fosse veramente attuato. E allora noi dobbiamo essere consapevoli che abbandonarci a logiche di collateralismo politico, di opportunismo, di mediazione tra vari interessi significherebbe tradire quella storia. E consegnarci ad un futuro in cui si potrebbe realizzare il sogno, l’aspirazione di una gran parte del potere politico, economico e finanziario: quello di avere una magistratura sostanzialmente asservita al potere politico, al potere esecutivo. In questo senso la lotta per riportare pulizia e trasparenza all’interno del Csm diventa una lotta di libertà, di democrazia che ha il fine di conservare il principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato.

Tra le tante riforme che il Ministero della Giustizia ha proposto c’è anche quella del Consiglio Superiore della Magistratura. Quali modifiche suggerirebbe lei ai legislatori?

Guardi, fermo restando il principio della elezione e non della scelta mediante sorteggio dei membri togati del Csm, io suggerirei loro di studiare dei sistemi elettorali in grado di diminuire, già in questa fase, il potere delle singole correnti. E, di conseguenza, di aumentare la possibilità che venga candidato ed eletto il magistrato effettivamente stimato ed effettivamente meritevole di quella stima.

Una sorta di Meritocrazia.
Potrebbe essere utile studiare un sistema a doppio turno, in cui la rosa dei candidati viene inizialmente individuata attraverso elezioni su base territoriale, distrettuale. In questo modo verrebbe privilegiato non solo o non tanto chi è appoggiato da una corrente ma chi, all’interno di quel territorio, è particolarmente stimato per le sue doti professionali, di onestà, di forza morale.
Anche se io non credo che il cambiamento debba avvenire soltanto a colpi di riforme, benché qualche riforma, come quella di cui ho parlato, potrebbe essere utile. Il vero cambiamento avviene attraverso l’abbandono di logiche clientelari, spartitorie, di mediazione, di corrente, di cordata e questo cambiamento passa dai singoli magistrati e soprattutto, visto che parliamo di CSM, dai singoli consiglieri. Chi viene eletto al Consiglio Superiore della Magistratura deve sentire la responsabilità di contribuire al cambiamento. Deve sentire la grande responsabilità e il grande peso nella trattazione di ogni pratica – anche quella apparentemente di routine – di difendere la vera indipendenza della magistratura. E di valorizzare quei magistrati che l’autonomia e l’indipendenza la vivono quotidianamente nell’esercizio, spesso veramente difficilissimo, delle loro funzioni.

Lei è noto al pubblico per la sua chiarezza, per la capacità di far comprendere i temi della Giustizia anche ai non addetti ai lavori. Può quindi spiegare ai nostri lettori il dibattito-polemica sulla riforma della prescrizione attualmente in corso? E qual è la sua opinione in merito?

Io credo che bisognerebbe partire dai dati di fatto. Il principale è che in Italia si è creata, per troppi anni, una sacca di vera e propria impunità per una serie di delitti. Mi riferisco, soprattutto, ai delitti tipici dei colletti bianchi, dei pubblici ufficiali, degli incaricati di pubblico servizio contro la Pubblica Amministrazione. Questa sacca di impunità è dimostrata dal fatto che soltanto una percentuale irrisoria di detenuti, ristretti nelle nostre carceri, sta scontando una pena per quei reati. Ed è stata provocata non solo dalla difficoltà di individuare, sanzionare, punire, condannare i corrotti, ma anche dal fatto che molti di quegli imputati, anche quando le prove a loro carico erano schiaccianti, non sono stati condannati per intervenuta prescrizione.
E allora cerchiamo di fare chiarezza: l’istituto della prescrizione, in tutti i sistemi processuali, nasce per fotografare il momento in cui, per il passaggio di troppo tempo dalla commissione di un reato, lo Stato non ha più interesse ad individuare e punire i colpevoli. Ma nel momento in cui un processo nasce – e quindi lo stesso Stato dimostra questo interesse – ritengo che per un principio elementare di civiltà giuridica quel processo debba concludersi con una sentenza di condanna o di assoluzione. Quindi con un accertamento nel merito. Da questo punto di vista ho giudicato assolutamente positiva la novella legislativa che prevede che, almeno dopo la sentenza di primo grado, il termine di prescrizione non decorra più. Non condivido quindi tutte queste obiezioni, i dubbi, le proteste e le grida di dolore che la dipingono come una riforma che uccide lo stato di diritto quando invece questo tipo di regola, adesso introdotta nella Legge italiana, è prevista anche in altri ordinamenti giuridici sicuramente evoluti, quali quelli di quasi tutti gli Stati Europei.
Altro problema è quello della insopportabile lunghezza dei processi penali. Su questo tema penso che chi ha il compito di ottenerne una velocizzazione, quindi il legislatore, dovrebbe capire che ciascun processo ha una storia a sé, una complessità diversa e che non è quindi possibile stabilire astrattamente che un processo debba durare un anno, due anni o tre anni, come previsto da alcuni progetti di riforma. Con conseguente sanzione disciplinare per i pubblici ministeri e i giudici che non rispettino quei tempi. La minaccia di una sanzione, infatti, comporterebbe inevitabilmente una induzione, per il Pm, ad indagare meno approfonditamente pur di rispettare i termini e, per il giudice, a decidere più velocemente anche quando invece la sua coscienza e la sua professionalità imporrebbero un approfondimento.
A mio parere la velocizzazione si dovrebbe ottenere attraverso una riduzione del numero dei processi penali, che può avvenire con una seria depenalizzazione e attraverso una riforma del giudizio di appello che preveda l’abolizione del divieto di reformatio in peius. Questo per scoraggiare quegli appelli che hanno come unica finalità quella di allungare i tempi perché in ogni caso l’imputato appellante non rischia nulla, se non che venga confermata la sua sentenza.
Sono inoltre convinto che sia necessaria una profonda rivisitazione delle regole processuali del dibattimento penale. Nel senso che, pur confermando la validità dell’impianto accusatorio del nostro processo, si preveda però la possibilità di recuperare a livello probatorio, senza necessità di ripetere la prova in dibattimento, alcuni risultati delle indagini preliminari.

Questo accorcerebbe molto i tempi del dibattimento.
Esatto. Tanto questo non precluderebbe la possibilità, anche per le difese, di approfondire in dibattimento eventuali passaggi degni di un esame più attento. Eviterebbe però storture processuali che allungano tanto i tempi quale quella, per esempio, che obbliga oggi un ufficiale di Polizia giudiziaria ad andare in dibattimento a fingere di ricordare dettagli di uno scippo sventato quindici anni prima e sul quale aveva al tempo stilato una relazione completa.
Potremmo fare un altro esempio sul regime della utilizzabilità delle intercettazioni. Oggi, qualsiasi intercettazione diventa prova soltanto quando viene trascritta, con le forme della perizia, nel giudizio dibattimentale, anche qui con conseguente e spesso notevole allungamento dei tempi.
Io credo che le trascrizioni fatte nel corso delle indagini preliminari dalla Polizia giudiziaria, che nel frattempo sono state esaminate, così come le intercettazioni ascoltate dai difensori, potrebbero certamente transitare nel fascicolo per il dibattimento, essere considerate elementi di prova. Fatta salva, ovviamente, la possibilità per il difensore di contestare determinati passaggi di quella trascrizione della Polizia giudiziaria, ma senza doverla necessariamente ripercorrere nella sua integralità. Questo perché spesso parliamo di centinaia e centinaia di ore di intercettazioni ambientali.
Ecco, intervenire su questi meccanismi processuali potrebbe accorciare i tempi del giudizio penale.

Purtroppo le polemiche su questa proposta di legge sono tante, sia da parte di esponenti politici che, purtroppo, di magistrati. Perché secondo lei c’è questa resistenza, questa volontà di non far approvare tale legge?
Fermo restando il pieno rispetto delle delle opinioni altrui – quando queste opinioni sono espresse in buona fede – io temo che ci sia da un lato una parte, spero piccola, di resistenza dovuta a chi, tutto sommato, vuole che rispetto a certi fenomeni e certi reati venga conservata quella sacca di impunità che il vecchio regime della prescrizione consentiva. E, dall’altro – ed è possibile che ciò riguardi, purtroppo, una parte della magistratura, anche se minima – che la prescrizione venga considerata comunque come un fattore positivo di deflazione del numero dei processi e di alleggerimento di carichi che spesso sono oggettivamente insopportabili.
Rispetto però ai principi generali ed agli obiettivi di cui parlavamo prima, credo che sarebbe un grave errore tornare indietro nella logica della conservazione di quella sacca di impunità e di deflazione dei numeri che, appunto, il vecchio regime della prescrizione consentiva.

* Articolo 3 della Costituzione Italiana
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

(Continua)

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