Di Antonio Mazzeo
Gli Stati Uniti d’America hanno ridotto a 100 le bombe nucleari tattiche B61 dislocate in Europa ma l’Italia continua ad essere il partner NATO che ospita il maggior numero di questi ordigni di distruzione di massa, ben 35, nelle basi aeree di Aviano (Pordenone) e Ghedi (Brescia). Lo rende noto l’Istituto di Ricerche Internazionali IRIAD – Archivio Disarmo di Roma dopo la pubblicazione da parte del Bulletin of the Atomic Scientists di una ricerca sulle “Armi nucleari statunitensi”, a cura degli studiosi Hans M. Kristensen e Matt Korda.
Secondo i due esperti, le bombe nucleari USA sono attualmente presenti in sei basi europee: Kleine Brogel, Belgio (15 B-61); Büchel, Germania (15); Volkel, Olanda (15); Incirlik, Turchia (20); Aviano (20) e Ghedi (15).
“Tali bombe nucleari tattiche, aviotrasportate e destinate ad essere eventualmente usate per un conflitto limitato al Vecchio Continente, erano state dislocate a centinaia nel 1979, in piena guerra fredda, e sono rimaste a rappresentare l’impegno statunitense a difendere l’Europa dal potente vicino russo”, commenta il professore Maurizio Simoncelli, vicepresidente IRIAD. “Nel corso degli anni il loro numero si è ridotto ed anche le basi dove erano dislocate sono diminuite, al punto che in Gran Bretagna e in Grecia non vi sono più. Le testate rimangono più numerose però proprio nelle due basi italiane. Se quella di Aviano è statunitense, quella di Ghedi è della nostra Aeronautica militare, dotata di cacciabombardieri Tornado IDS del 6º Stormo, che verranno prossimamente sostituiti dai nuovi F-35E Strike Eagle preparati appositamente per il trasporto delle B61. Anzi queste ultime verranno rimpiazzate entro un biennio dalle nuove B61-12, che saranno dotate di un impennaggio di coda per colpire con precisione l’obiettivo e potranno essere lanciate a distanza per evitare all’aereo il fuoco difensivo dalla zona attaccata”.
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Le nuove 61-12 sono state prefigurate sia per le esplosioni al suolo sia in aria con una potenza predeterminabile fra 0,3 e 50 kiloton, consentendo di colpire gli obiettivi con “minori danni collaterali e minore ricaduta radioattiva”, come riferito dagli analisti del Pentagono. “La loro evoluzione tecnologica le rende dunque più facilmente utilizzabili aumentando quindi i rischi di un conflitto nucleare”, aggiunge il professore Simoncelli. “Appare pertanto necessario che il governo italiano e le forze politiche affrontino la scelta di avviarsi verso la rimozione di queste basi e delle relative bombe, proprio per la sicurezza del nostro paese e dell’Europa, operando in sintonia con le finalità non solo del Trattato di Non Proliferazione nucleare, ma anche del recente TPNW Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons, a cui l’Italia non ha purtroppo aderito e appena entrato in vigore”.
Secondo quanto riferito l’8 giugno 2020 a Defence New dal responsabile dei programmi di difesa National Nuclear Security Administration, Charles Verdon, le nuove testate B61-12 sono già state testate con successo dai cacciabombardieri F-15E Strike Eagle, durante l’esercitazione NATO “Red Flag” tenutasi nel poligono Tonopah in Nevada, nel marzo 2020. “Una testata non attiva è stata rilasciata da un caccia a circa 1.000 piedi dal suolo, mentre è stato effettuato anche un test ad un’altitudine maggiore, a circa 25.000 piedi; in entrambe le prove sono stati colpiti gli obiettivi designati”, ha riferito l’ufficiale USA.
Per il programma di aggiornamento e potenziamento delle bombe nucleari tattiche B-61, il Pentagono ha previsto una spesa comprensiva tra gli 8 e i 9 miliardi d dollari. Esse potranno essere impiegate oltre che dai cacciabombardieri F-35 ed F-15, anche dagli F-16 e dai bombardieri strategici B-2 di US Air Force, nonché dai velivoli delle aeronautiche militari dei partner NATO. Sempre secondo la National Nuclear Security Administration, la produzione delle B61-12 sarà conclusa negli Stati Uniti d’America entro la fine del 2022.
Ai test inaugurali in Nevada delle nuove testate tattiche erano presenti, tra gli altri, i cacciabombardieri F-35A del 32° Stormo dell’Aeronautica italiana di Amendola (Foggia) “La presenza in Nevada all’esercitazione multinazionale Red Flag ci ha consentito di accrescere e consolidare il ruolo del nuovo velivolo quale enabler fondamentale in scenari complessi, che includono minacce aeree e terrestri avanzate”, ha commentato enfaticamente l’ufficio stampa dell’Aeronautica militare. Una conferma non tanto implicita dell’intenzione dei vertici della Difesa italiana di assegnare ai costosissimi caccia di quinta generazioni anche le funzioni di strike nucleare in ambito NATO.
Il 22 gennaio scorso, in occasione dell’entrate in vigore del Trattato internazionale che proibisce le armi nucleari, il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale Luigi Di Maio ha emesso una nota stampa in cui è stata ribadita la totale subordinazione del nostro paese alle strategie di guerra dei moderni dottor Stranamore dell’Alleanza Atlantica. “Apprezziamo il ruolo della società civile nel sensibilizzare sulle conseguenze catastrofiche dell’uso delle armi nucleari”, ha dichiarato il ministro (uscente), ma “siamo convinti che l’approccio migliore per conseguire un effettivo disarmo nucleare implichi un pieno coinvolgimento dei paesi militarmente nucleari laddove invece – dal momento in cui è stata lanciata l’iniziativa del Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari – abbiamo assistito ad una crescente polarizzazione del dibattito in seno alla comunità internazionale”.
“Pur nutrendo profondo rispetto per le motivazioni dei promotori del Trattato e dei suoi sostenitori – ha concluso Di Maio – riteniamo quindi che l’obiettivo di un mondo privo di armi nucleari possa essere realisticamente raggiunto solo attraverso un articolato percorso a tappe che tenga conto, oltre che delle considerazioni di carattere umanitario, anche delle esigenze di sicurezza nazionale e stabilità internazionale”.
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Il cinico commento del leader pentastellato è stato giustamente stigmatizzato dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, tra le organizzazioni non governative italiane che hanno sostenuto la campagna per l’approvazione del Trattato TPNW. “Respingiamo l’assunto che il Trattato avrebbe avuto un effetto negativo sugli strumenti di disarmo multilaterale”, scrive l’ONG. “Il TPNW ha avuto invece il merito di riattivare percorsi di disarmo ormai da troppo tempo in stallo e consideriamo un’occasione mancata l’assenza dell’Italia e di molti suoi alleati non nucleari dal dibattito che ha portato alla sua adozione”. Per la Rete Italiana Pace e Disarmo, lo smantellamento del quadro di dispositivi legati al disarmo multilaterale è “piuttosto derivato da scelte infauste dell’Amministrazione Trump, con la dissoluzione di Trattati fondamentali come l’INF e il JCPOA e i ritardi sul New START”.
Tratto da: Antimafiaduemila
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