“Nella Piana non si muoveva foglia che il triumvirato Pesce-Mancuso-Piromalli non volesse”
Ha rilasciato dichiarazioni a profusione Antonino Fiume, 56 anni, pentito di ‘Ndrangheta, deponendo al processo che si celebra a Lamezia Terme “Rinascita-Scott”. Una mole di informazioni talmente vasta che il sostituto procuratore della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, così come il presidente del collegio Brigida Cavasino, hanno fatto fatica a tenere le redini del discorso e frenare la velocità dei racconti del teste.
Fiume è stato un uomo della potentissima cosca De Stefano di Reggio Calabria, divenuto collaboratore di giustizia nel 2002. Da giovane il boss Paolo De Stefano lo ha messo al seguito del figlio Carmine: “Voleva che lo controllassi”, ha raccontato, perché i figli del capo bastone conducevano una vita troppo agiata e spendacciona. Cresciuto con i De Stefano, Fiume abbraccia il demone della vendetta quando Paolo De Stefano viene ucciso.
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Per quanto riguarda il suo ruolo e il suo grado all’interno della cosca Fiume si definisce “un riservato”. Alla domanda del pm se la famiglia De Stefano facesse parte della ‘Ndrangheta, Antonino Fiume risponde che “la parola ‘Ndrangheta in quella casa non veniva pronunciata perché i De Stefano erano qualcosa di più. Paolo De Stefano faceva parte del Consorzio e il Consorzio era il potere assoluto delle mafie in Italia”. Dentro c’erano tutte le organizzazioni mafiose del Paese: le cosche calabresi, i palermitani e i catanesi, la camorra, la Sacra Corona Unita. La sede del Consorzio era a Milano ma qualche riunione si è tenuta anche in Calabria, a Isola Capo Rizzuto, Le Castella, Limbadi. In quest’ultima località, in particolare, ha raccontato il pentito, c’era Luigi Mancuso “che era il detentore della chiave”, nel senso che poteva arrivare ovunque, considerato da tutti un “paciere” e un mediatore. In una delle riunioni del Consorzio che si tenne in Calabria si discusse di come “sistemare un processo” che vedeva due ragazzi accusati di omicidio. In quell’occasione, ricorda Fiume, Franco Coco Trovato – a capo di un’alleanza di ‘ndrine tra Milano e Lecco – aveva offerto un miliardo di lire per corrompere un giudice. Torna anche nei racconti di Fiume il caso della riunione delle cosche calabresi al villaggio Sayonara per discutere della proposta proveniente dai corleonesi di partecipare alla strategia stragista per minare le fondamenta dello Stato. “Franco Coco Trovato voleva adottare la linea stragista”, racconta il collaboratore, il quale ricorda di avere accompagnato Giuseppe De Stefano a quella riunione ma di non avervi partecipato, salvo, poi, apprendere quanto accaduto dallo stesso De Stefano che era contrario alla posizione di Trovato. Nel corso della riunione al Sayonara “Luigi Mancuso aveva alzato le mani”, in segno di dissenso rispetto al disegno stragista che prevedeva anche l’uccisione di magistrati.
“Un magistrato si cerca di avvicinare o delegittimare”, era la linea seguita dalle cosche. Nella Piana non si muoveva foglia che il triumvirato non volesse. Il triumvirato in questione era composto, ha spiegato il collaboratore, dalla triade Pesce-Mancuso-Piromalli. E in questo contesto, secondo Antonino Fiume, Giuseppe De Stefano era considerato persona alla quale il triumvirato poteva rivolgersi. Nel corso dell’udienza di ieri sono state riunite le posizioni – precedentemente stralciate a causa dell’isolamento Covid – di Angelo Accorinti, Bruno Barba, Giuseppe Barbieri, Valerio Navarra, Nazzareno Fiorillo, Francesco Fortuna, Emanuele La Malfa, Giovanni Rizzo, Michele Lo Bianco, Pietro Grillo, Luigi Incarnato, Gianfranco Ferrante, Alessandro Iannarelli, Caterina Cichello, Francesco Barbieri (cl. ’88), Taneva Dimitrova. Il collegio ha deciso di non accogliere la richiesta delle difese di non accorpare al troncone principale le posizioni stralciate. I giudici hanno, però, deciso, accogliendo le tesi difensive, che nei confronti di tali imputati è inutilizzabile l’istruttoria svolta fino allo scorso 8 febbraio.
Tratto da: Antimafiaduemila
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