Renzi, Salvini, Toti e Meloni: tutti uniti per difendere Berlusconi
di Aaron Pettinari
C’è chi ha parlato di “accanimento giudiziario“. Chi ha definito le indagini “senza logica“. Chi si è detto “attonito“. E chi in un tweet ha semplicemente invocato “basta indagini su Silvio Berlusconi“.
Sono alcuni dei “cori” che si sono sollevati il giorno dopol’ufficialità dell’inchiesta aperta a Firenze, con l’accusa di essere un possibile mandante delle stragi in Continente (quelle del 1993 e del 1994, compresi gli attentati al pentito Contorno e al
conduttore Maurizio Costanzo), nei confronti di Silvio Berlusconi. “Cori” che hanno visto la partecipazione di nomi di peso (dal presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, al presidente della regione Liguria, Giovanni Toti, passando per il leader della Lega, Matteo Salvini e il leader di Italia Viva Matteo Renzi) che non hanno voluto perdere occasione per commentare la notizia e, in qualche modo, esprimere la loro vicinanza all’ex Premier.
Tutti pronti a gridare allo “scandalo” e allo “spreco di risorse” come se fosse in atto una “lesa maestà”, da parte dell’intera magistratura italiana, contro colui che ha di fatto governato (regnato) l’Italia per un ventennio. Un let motive già sentito e che si ripete ogni qual volta vengono toccate certe “note dolenti”.
E meno male che tanto la Meloni, quanto Renzi, dicono di predicare il “massimo rispetto per la magistratura”. Addirittura il “fuoriuscito dal Pd” ha affermato di aspettare “le sentenze definitive della Cassazione“. Eppure le sentenze definitive parlano da tempo dei rapporti tra Berlusconi e la mafia.
C’è la sentenza della I sezione penale della Corte di Cassazione che ha condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa Marcello Dell’Utri (braccio destro di Berlusconi e co-fondatore di Forza Italia).
Nelle motivazioni della sentenza è scritto che per diciotto anni, dal 1974 al 1992, l’ex senatore è stato il garante “decisivo”
dell’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra con un ruolo di “rilievo per entrambe le parti: l’associazione mafiosa, che traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica”. Si legge inoltre che “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utria Cinà (Gaetano Cinà, boss mafioso, ndr) sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”.
Sempre la Cassazione ha poi evidenziato come “il perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5”.
Quindi i giudici della Suprema corte parlano di un “patto di protezione andato avanti senza interruzioni”. E Dell’Utri era il garante per “la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa, in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore”.
Basterebbero già queste valutazioni per tracciare un profilo grave e prendere le distanze da Berlusconi definitivamente. Ma Renzi, evidentemente memore del Patto del Nazareno stretto nel 2014, fa finta di niente.
Uno sport comune alla maggior parte dei politici, Capo dello Stato compreso che ha ricevuto Berlusconi anche per le
Consultazioni di Governo che hanno preceduto la nascita del “fu governo gialloverde”.
Ma c’è un altro aspetto che vale la pena ricordare.
L’inchiesta della Procura di Firenze, infatti, non è un fulmine a ciel sereno che si sta abbattendo sul “povero Silvio” solo nel 2019.
Il fascicolo è stato riaperto nel 2017 dopo la trasmissione di atti, pervenuti da Palermo, con le intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
“Berlusca mi ha chiesto questa cortesia, per questo c’è stata l’urgenza” diceva il capomafia durante l’ora di passeggio con il camorrista Umberto Adinolfi nel carcere di Ascoli Piceno.
In quelle conversazioni, avvenute tra il 19 gennaio 2016 e il 29 marzo 2017, si diceva anche altro. A parlare era sempre Graviano: “Nel ‘92 già voleva scendere, voleva tutto, ed era disturbato… In mezzo la strada era Berlusca… lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi… lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa…“. Ed è questo secondo gli inquirenti un altro riferimento alla “cortesia”. Ma in quel dialogo il boss di Brancaccio esprimeva anche altre considerazioni: “Nel ‘94 lui è ubriacato perché lui dice, ma io non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato… Pigliò le distanze… e ha fatto il traditore“. O ancora “25 anni fa mi sono seduto con te… Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, tu cominci a pugnalarmi… Ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose…“.
Parole che, se si ha a cuore veramente la ricerca della verità su quella stagione di terrore che portò alla morte i giudici Falcone, Borsellino, gli agenti delle scorte ed anche altre vittime innocenti, vanno doverosamente approfondite.
Vicende che si inseriscono inevitabilmente su altri fatti avvenuti in quegli anni di stragi, come la trattativa Stato-mafia.
Anche nelle motivazioni della sentenza di primo grado della Corte d’Assise, presieduta da Alfredo Montalto e giudice a latere Stefania Brambille, vi sono elementi che andrebbero approfonditi per proseguire nella ricerca di una verità che manca da troppi anni.
Ma si sa che l’Italia è un Paese alla rovescia, fondato su segreti e misteri di Stato.
E se ciò è avvenuto è proprio perché, fino ad oggi, politici, politicanti e uomini di Stato hanno scelto la via del complice silenzio, isolando tutti coloro che, diversamente, la verità la vogliono conoscere fino in fondo.
Tra questi vi era Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione Familiari Vittime dei Georgofili, deceduta il mese scorso. Ma Renzi&C. preferiscono urlare alla “lesa maestà” di Berlusconi, un pregiudicato che, si dica diversamente o meno, pagava la mafia.
Foto di copertina © Ansa
Foto interne © Imagoeconomica
Di Aaron Pettinari
Fonte: Antimafiaduemila
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