E’ stata confermata dalla Cassazione l’assoluzione dell’ex ministro della Dc Calogero Mannino, difeso da Grazia Volo, nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. I supremi giudici della Sesta sezione penale hanno dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla Procura generale di Palermo contro il proscioglimento di Mannino, emesso dalla Corte di Appello di Palermo il 22 luglio 2019.
Nel documento veniva rappresentata “un’eccezione di legittimità costituzionale” e si evidenziava la “manifesta illogicità della motivazione” quando la Corte d’Appello non ha tenuto conto dei “fatti rimasti accertati nel procedimento” in cui l’ex segretario regionale Dc fu assolto dall’accusa di concorso in associazione mafiosa, ma che sarebbero comunque “indicativi di pluriennali rapporti con importanti esponenti mafiosi”.
Certo era difficile aspettarsi un esito diverso nel terzo grado di giudizio, specie nel momento in cui lo stesso Pg di Cassazione ha chiesto di dichiarare il ricorso, in cui si contestava la logicità e la conformità alla legge della sentenza d’appello, inammissibile.
L’impianto accusatorio nei confronti di Mannino è noto così come il reato contestato disciplinato dagli articoli 338 e 339 del codice penale, ovvero violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. Secondo l’accusa avrebbe dato lui il primo input, dopo l’omicidio Lima, al dialogo che, tramite i carabinieri del Ros, ha visto protagonisti pezzi delle istituzioni e mafiosi.
Il processo, in tre gradi di giudizio, ha visto l’assoluzione del politico Dc.
Ovviamente già è iniziato il solito “battage mediatico” di commenti volto a minare il procedimento in corso in ordinario e che vede altri imputati, nonché ben altra mole di prove, acquisite anche nel corso dello stesso dibattimento.
C’è chi parla di “persecuzione”, chi di “nuovo colpo alla tesi della trattativa”, chi di “storia politica falsata”, dimenticando che l’ex ministro, che era accusato di minaccia a Corpo politico dello Stato, è stato assolto, tanto in primo grado quanto in secondo, “per non aver commesso il fatto”, ovvero in base all’articolo del codice di procedura penale 530 comma secondo. Una formula che ricalca la vecchia assoluzione per “insufficienza di prove” e che viene applicata quando la prova del reato “manca, è insufficiente o è contraddittoria”.
Ciò significa che il fatto esiste, che il “teorema trattativa” (così come lo chiamano i solidi denigratori) è tutt’altro che distrutto.
In attesa di leggere le motivazioni della sentenza appaiono comunque discutibili e illogiche alcune conclusioni a cui erano giunti i giudici di secondo grado.
La Corte d’Appello, infatti, nelle motivazioni della sentenza aveva affermato che “con certezza può escludersi che non ci fu alcuna ‘promessa tradita, collusione o contiguità mafiosa’ da parte di Mannino”.
Eppure, nel 2014, i giudici della Corte di Cassazione che respinsero la richiesta di risarcimento di Mannino per ingiusta detenzione avevano scritto nero su bianco che l’ex ministro Dc aveva “accettato consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa (il boss Antonio Vella, ndr) e, a tale fine, gli aveva dato tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento”.
Nonostante il verdetto finale di assoluzione, ciò non significava che fosse stato arrestato ingiustamente. Ed anzi vale la pena ricordare che diversi riscontri “giustificavano, secondo la corte territoriale, il convincimento che il Mannino avesse consapevolmente intrattenuto rapporti con il mafioso Vella per motivi elettorali e avesse, in particolare, accettato che costui divenisse un suo procacciatore di voti, con l’effetto di ingenerare nella mafia agrigentina la convinzione che egli fosse soggetto disponibile per gli interessi dell’organizzazione”.
Senza considerare che la storia processuale dell’ex ministro Dc ha attraversato anche il cambio che la Cassazione diede sul concorso esterno.
Lo aveva ben spiegato l’ex magistrato Gian Carlo Caselli, nel 2015, ricordando come fosse “un dato di fatto che all’assoluzione di Mannino (del 2005, ndr) si arriva perché la Cassazione – a processo in corso – modifica il proprio orientamento rispetto a quello vigente all’inizio del processo sul concorso esterno in associazione mafiosa. Mentre prima per il delitto di concorso esterno era sufficiente provare l’esistenza di un patto tra mafia e accusato, col nuovo orientamento la Cassazione richiede anche la prova di un ‘ritorno’ del patto in termini di effetti favorevoli all’imputato”.
Segui Vivere Informati anche su Facebook e Twitter per rimanere sempre aggiornato sulle ultime notizie dall’Italia e dal mondo
Ma di questo, ovviamente, nessuno tiene conto e così si continua a parlare della persecuzione nei confronti di Mannino.
Alquanto grave, poi, è l’intervento a gamba tesa dei giudici di secondo grado sul processo che si sta celebrando in appello, con il rito ordinario.
Gli stessi giudici, infatti, hanno espresso pareri sulla sentenza della Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto che condannò i boss mafiosi (Leoluca Bagarella, Antonino Cinà), gli ufficiali del Ros (Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno), ed i politici (l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri). Considerazioni assurde nel momento in cui, in quel dibattimento, gli argomenti sono stati approfonditi con un’istruttoria molto più lunga e pregnante.
Gravità ancor più grande nel momento in cui la Corte d’appello è andata oltre il ruolo dell’imputato Mannino (oggi assolto definitivamente) valutando anche le posizioni degli altri coimputati e addirittura affermando che Paolo Borsellino sarebbe stato a conoscenza dei contatti tra Vito Ciancimino ed i carabinieri. Un dato che neanche gli ufficiali del Ros hanno mai rappresentato nei procedimenti aperti nei loro confronti.
I commenti
La sentenza è stata ovviamente commentata da Mannino che ha parlato di “lunga via crucis durata trent’anni” e di “ossessioni di certi pm” (come se l’accertamento della verità dei fatti non fosse anche un proprio interesse).
Diametralmente opposta la considerazione dell’ex pm Antonio Ingroia, oggi avvocato, che avviò l’inchiesta sulla trattativa. “Leggeremo le motivazioni dell’assoluzione definitiva di Calogero Mannino, ma vorrei dire subito che il giudizio abbreviato è un’altra storia. Perché i giudici non hanno avuto la possibilità di sentire direttamente le fonti di prova e farsi un’idea – ha commentato all’Adnkronos –. Rivendico di avere per primo aperto il processo Trattativa e poi di averlo portato avanti fra gli scetticismi dei miei superiori del tempo e i fatti mi hanno dato ragione: condanna di tutti gli imputati alla fine del dibattimento di primo grado quando i giudici hanno potuto sentire dal vivo le fonti di prova e si sono fatti un’idea”. Infine ha concluso: “La vicenda giudiziaria di Mannino, parallela al processo principale, è stata condizionata dal giudizio negativo sull’attendibilità di Massimo Ciancimino che i giudici della corte d’Assise di Palermo sono riusciti a tenere ben distante dal giudizio sulla colpevolezza degli imputati, comunque riconosciuta a prescindere dai dubbi su Ciancimino. Nel processo Mannino così non è stato. E questo è il risultato finale, inevitabile”.
Ogni commento ulteriore risulta superfluo e sullo sfondo resta l’amarezza per l’ennesima assoluzione di un ex potente. La fotografia di uno Stato che la verità sugli anni delle stragi non la vuole raggiungere.
Tratto da: Antimafiaduemila