Fra pochi mesi il processo per corruzione contro le compagnie petrolifere Eni e Shell, accusate a Milano di aver pagato una tangente da 1,3 miliardi di dollari in Nigeria per ottenere l’assegnazione senza gara i diritti di esplorazione del giacimento Opl 245 (soldi arrivati a personaggi di primo piano del governo nigeriano), avrà le sue battute finali.
I pubblici ministeri milanesi, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, hanno chiesto una condanna ad 8 anni per l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e per l’ex amministratore delegato Paolo Scaroni.
Accanto all’indagine sulla Nigeria, però, la Procura di Milano ha da tempo avviato un altro filone investigativo sugli affari della compagnia petrolifera in Congo.
La vicenda – ricapitolata ora in un rapporto, Il caso Congo, della ong Re:common – inizia nel 2013, quando il dittatore locale, Denis Sassou Nguesso, vara una direttiva per far entrare le società del Congo-Brazzaville nel mercato petrolifero.
Secondo l’accusa Eni e Total, al momento di rinnovare le concessioni erano obbligare a cedere le quote a compagnie locali, non di tipo pubblico, ma privato.
Unica esistente al tempo era la Aogc (Africa Oil and Gas Corporation), fondata nel 2001 da Denis Gokana.
Una società che, di fatto, apparteneva allo stesso Nguesso. E Gokana, per anni alla guida della compagnia statale Snpc, a sua volta era poi diventato consigliere speciale di Nguesso per le questioni petrolifere.
L’intreccio politico-affaristico è reso ancor più manifesto con due soci di Aogc (Lydie Pongault e Dieudonné Bantsimba) divenuti consigliere di Nguesso per la cultura e capo di gabinetto del ministero del Territorio.
Secondo quanto ricostruito dall’accusa l’Eni, per ottenere i rinnovi dei permessi petroliferi, avrebbe pagato mazzette (sotto forma di quote azionarie) a pubblici ufficiali congolesi legati a Nguesso, nascosti dietro Aogc.
Al posto delle mazzette le tangenti della “nuova era” sono le quote della società, in questo caso cedute da Eni ai congolesi.
Non solo. Secondo i magistrati milanesi Paolo Storari e Sergio Spadaro, una parte delle mazzette pagate da Eni sarebbe tornata, sempre sotto forma di quote societarie, nelle tasche di alcuni suoi manager.
Una parte della tangente sarebbe andata a vantaggio di un alto dirigente del gruppo, Roberto Casula, a cui i pm sono convinti di poter ricondurre la Wnr-World Natural Resources, società di diritto britannico alla quale nel biennio 2013-2015 la Africa Oil and gas corporation cedette il 23% dei diritti di esplorazione.
E il legame tra Casula e la Wnr sarebbe rappresentato da Maria Paduano, un’altra dirigente Eni, che nel giugno 2017 cedette a Casula un preliminare di acquisto per una casa a Roma in seguito comprata dal Chief development – operations & technology officer per 1,15 milioni di euro.
Tre mesi dopo, Paduano viene assunta dall’Eni. Oggi la donna è ancora dipendente Eni, mentre Casula si è autosospeso dall’incarico dopo le perquisizioni subite nella primavera del 2018.
Ma nella lente del rapporto vi sono ancora una volta l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e la moglie Marie Magdalena Ingoba, fino al businessman inglese Alexander Haly. In particolare, Claudio Descalzi e Marie Magdalena Ingoba sarebbero accusati anche di omessa comunicazione di conflitto d’interessi, dal momento che società collegate alla Ingoba avrebbero tratto benefici da contratti firmati con Eni per servizi forniti in Congo.
Tratto da: L’Antidiplomatico
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