L’immagine del suo piccolo corpo senza vita riverso sulla battigia a Bodrum, in Turchia, aveva scosso l’intero pianeta per settimane. Oggi, a più di quattro anni di distanza, la famiglia (o quel che ne resta), del piccolo Alan Kurdi ha ottenuto giustizia. I tre scafisti turchi che guidavano l’imbarcazione sulla quale si trovava il piccolo il 2 settembre del 2015, sono stati condannati a 125 anni di carcere a testa con l’accusa di aver organizzato quella tragica traversata nel mar Egeo. Alan era salpato in compagnia della madre Rehana e del fratellino Galib di 5 anni verso l’isola greca di Kos per raggiungere l’Europa. Ma il precario gommone sul quale viaggiava, per giunta sovraffollato, si inabissò. I soccorritori riuscirono a salvare 9 migranti, ma per lui, la madre e il fratellino non ci fu nulla da fare, come per altre due persone a bordo.
Le indagini sul naufragio avevano puntato inizialmente anche sul padre del bambino, Abdullah Kurdi, sospettato di aver guidato il gommone su indicazione degli scafisti. Ma l’uomo venne scagionato e fece ritorno nella città curdo-siriana di Kobane, da cui era scappato dagli attacchi dell’Isis, per seppellire i familiari. La magistratura aveva in seguito individuato cinque sospetti come responsabili dell’organizzazione della traversata, due siriani e tre turchi. I siriani, Muwafaka Alabash e Asem Alfrhad erano già stati arrestati e condannati nel 2016 a 4 anni e 2 mesi di carcere ciascuno per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina“. Tuttavia le menti di quella rete illegale che gestiva le traversate di migranti verso le isole greche erano riusciti a far perdere le loro tracce. Cebrail Enkadur, Ecevit Bulunt Gokalp e Ali Can Sas, questi i nomi dei turchi indagati, si sono dati alla latitanza per anni, fino al recente arresto, avvenuto la scorsa settimana, nella provincia meridionale di Adana, vicino al confine siriano. Condotti nel tribunale cittadino, sono stati giudicati martedì in videoconferenza dai giudici di Bodrum, che li hanno subito condannati al carcere a vita per “traffico di esseri umani” e “omicidio”. Nel frattempo, grazie allo scatto storico della fotoreporter turca Nilufer Demir, Alan Kurdi è diventato il simbolo della crisi migratoria in Europa che ancora oggi causa migliaia di vittime.
Tratto da: Antimafiaduemila.com