L’anno giudiziario che si apre oggi cade dopo la stagione più nefasta per l’autogoverno della magistratura. Mi riferisco allo scandalo di Maggio scorso – che sembra frettolosamente archiviato come fatto episodico e circoscritto ai protagonisti, da cui è troppo semplice adesso prendere le distanze – mentre invece meriterebbe una riflessione più profonda sul tradimento della rappresentanza dei magistrati ed una risposta radicale sotto il profilo normativo e istituzionale.
Richiamando le parole del Capo dello Stato possiamo dire che “quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto del Consiglio ma anche… dell’intero Ordine Giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica.
Il coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il CSM, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’Ordine Giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla Magistratura”.
Nondimeno il CSM è andato avanti nello svolgimento dei compiti che la Costituzione gli assegna. I più importanti di essi dovrebbero riguardare la garanzia di condizioni praticabili nella erogazione del servizio giustizia.
Ecco perché per primi vanno ricordati i pareri espressi sulle riforme normative.
Ricordo quello relativo alla proposta di legge avente ad oggetto l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo, proposta che avrebbe prevedibilmente comportato un aumento del carico di lavoro delle Corti di Assise, di primo e secondo grado e una maggiore incertezza rispetto alla scelta della collaborazione con la giustizia, ponendosi in controtendenza rispetto al favore per i riti alternativi espresso dal legislatore del 1989.
Il parere sul disegno di legge in materia di tutela contro la violenza domestica e di genere.
Apprezzabile nella parte in cui prevede il rafforzamento del sistema di tutela ‘preventiva’ delle vittime per mezzo della tempestiva adozione di misure di protezione, e l’introduzione di misure atte a contenere il pericolo di recidiva. Ma di cui si è evidenziata la criticità nella parte in cui si prevede l’obbligo per il P.M. di procedere all’esame della persona offesa nel termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Una previsione ingenua che finisce per introdurre una rigidità nel sistema che rischia di tramutare la giustizia in burocrazia.
Ma soprattutto rilevante appare il parere relativo al ddl sulla prescrizione e corruzione, rispetto al quale abbiamo espresso una posizione di minoranza, non condividendo affatto che lo stop alla prescrizione possa costituire addirittura un fattore di allungamento dei processi. Rileviamo con soddisfazione che sul punto c’è stato un revirement istituzionale nel senso da noi auspicato.
Richiamando il documento di una Commissione Ministeriale (la Commissione Fiorella) c’è chi ha sostenuto che l’istituto della prescrizione – così com’è attualmente disciplinato – sarebbe un fattore di accelerazione dei processi, perché indurrebbe i giudici a celebrarli più in fretta per non farli prescrivere. Ne consegue secondo questa tesi che la nuova legge – prevedendo il blocco della prescrizione a partire dalla sentenza di primo grado – li allungherebbe. Ora è chiaro che il decorrere dei termini di prescrizione responsabilizza la parte pubblica, ma non si può dimenticare che la durata del processo è legata soprattutto all’esercizio di diritti e facoltà dell’imputato (notifiche, termini difensivi, procedure, la stessa oralità e le sue forme). Dimenticando di considerare ciò, indirettamente si finisce per affermare che la durata dei processi è esclusiva responsabilità dei magistrati. Che è ciò che sostengono, a torto, taluni detrattori dell’attività giudiziaria.
2) Si è sostenuto per avversare la nuova legge che siccome una rilevante parte dei processi si prescrive in fase di indagini, questa riforma non incidendo su quella fase, ma a partire dalla sentenza di primo grado, sarebbe inutile.
Il dato numerico delle prescrizioni durante le indagini è reale, ma va precisato. Non si dice che una enorme quantità di notizie di reato giungono quando stanno già per prescriversi e dunque non avrebbe senso mandare avanti questi processi con i costi che ciò comporterebbe: è meno dannoso che si prescrivano prima, piuttosto che procedere ad uno spreco ingiustificato di risorse.
Se si utilizza in modo acritico questo argomento – ossia quello dei reati che si prescrivono in sede di indagine – per contestare gli effetti della riforma sulla prescrizione, ancora una volta, in modo indiretto si finisce per affermare che la responsabilità di queste prescrizioni è colpa dei pubblici ministeri. E questa è una conclusione inaccettabile perché scarica sugli operatori una responsabilità che è solo del governo e del Parlamento, ossia di coloro che regolano l’accesso alla giustizia.
Questi argomenti per sottolineare come il CSM non deve essere la fabbrica delle nomine direttive, ma un luogo ove va in primo luogo tutelata la funzionalità del servizio reso ai cittadini.
Abbiamo il dovere della chiarezza, della denuncia, della nettezza delle posizioni, senza il timore di apparire irriverenti se diciamo che la Giustizia non funziona, che il re è nudo. Non si tratta affatto di ricercare soluzioni che conculchino diritti o impongano sanzioni ingiuste, ma solo di garantire un risultato minimo: la fisiologica celebrazione dei giudizi. Per questo appare irricevibile ed inqualificabile l’atto di ostracismo che giunge dalla Camera Penale di Milano nei confronti di Piercamillo Davigo ed altrettanto incomprensibili le prese di distanze che arrivano anche dall’interno o gli inviti alla moderazione che sanno di vecchio regime consociativo. La giustizia soffre per la presenza di corporazioni e di potentati – non solo esterni ma anche interni alla magistratura – abbiamo bisogno di confronto, di dibattito, di fresco profumo di libertà, non di censure o di messe al bando.
Dunque non si deve tacere di fronte a ciò che si ritiene sbagliato, in democrazia è inaccettabile imporre e subire condizionamenti nella espressione delle opinioni.
Ascoltiamo per questo preoccupati ma non in silenzio notizie di possibili riforme che vorrebbero imporre i tempi della Giustizia, prevedendo sanzioni disciplinari per i magistrati in caso di durata superiore a quella prevista.
Attendiamo di leggere il testo finale della riforma ma vogliamo sperare che le anticipazioni di stampa siano imprecise perché, come abbiamo avuto modo di osservare, rispetto alla durata dei processi, le variabili sono dettate dalle norme che richiamano la responsabilità politica del Governo e del Parlamento. Mentre l’eventuale colpa del giudice, oltre ad essere facilmente individuabile, viene prontamente rilevata e – come vedremo – rigorosamente sanzionata. Quella di prevedere per legge la durata dei processi è dunque una misura disarmante per la sua ingenuità e ricorda tanto l’antecedente del tumulto di San Martino del 1628 ricordato da Manzoni: l’editto con cui il gran cancelliere Ferrer pensò che fosse possibile con un suo provvedimento di abbassare il prezzo del pane. Le conseguenze di quel decreto culminate nella rivolta sono note a tutti. Non è questa dunque la strada da seguire per riformare la giustizia.
Con riferimento alla materia di competenza della 1° commissione del CSM, della quale sono presidente, e della sezione disciplinare posso riferire che nell’ultimo anno, fino ai recenti giorni trascorsi, abbiamo registrato fatti gravi, notizie di arresti e di indagini a carico di appartenenti all’ordine giudiziario anche per episodi di corruzione e di collusione con ambienti mafiosi.
La 1° commissione – che ha competenza sulle incompatibilità ambientali – sta svolgendo una attività senza precedenti per la quantità e la rilevanza delle questioni trattate.
Solo nell’ultimo trimestre sono state avviate otto pratiche di incompatibilità ambientale in parte definite con trasferimenti volontari, altre sospese per il sopraggiungere di procedimenti penali o disciplinari. Una buona parte riguardano capi di uffici, alcuni in posizioni apicali…
Il numero dei procedimenti pendenti presso la Sezione disciplinare alla data del 1° gennaio 2019 era di 41, mentre al 30 novembre dello stesso anno è pari a 77.
Vi è stato un incremento anche delle iscrizioni, atteso che nel 2018 erano stati iscritti n. 100 procedimenti disciplinari, mentre alla data del 30 novembre 2019 ne sono risultati iscritti n. 118. Il numero delle definizioni ha comunque superato quello delle sopravvenienze.
Quanto all’esito dei giudizi in questione, si evidenzia come siano state n. 27 le sentenze di condanna con applicazione delle varie sanzioni previste dalla legge. n. 34 le assoluzioni nel merito, n. 58 le ordinanze di non luogo a provvedere; n. 4 le sentenze di non doversi procedere.
Questi dati sono importanti perché, mentre da un lato va difesa la praticabilità della funzione giudiziaria, dall’altro occorre assicurare un autogoverno credibile e non corporativo che scongiuri minacce alla imparzialità o anche solo l’appannamento della credibilità della giustizia.
I magistrati non possono permettersi di sorvolare su comportamenti che minano la loro immagine agli occhi dei cittadini.
Ancora la Prima Commissione è determinata ad orientare le cd pratiche a tutela alla reale difesa della base dei magistrati che operano nella prima linea – per salvaguardarne la piena autonomia ed integrità nell’esercizio della funzione, da chiunque venga minacciata – e non certo come strumento di irruzione nel dibattito politico.
Per ciò che riguarda la mobilità dei magistrati, in occasione dell’individuazione dei posti vacanti (di primo e secondo grado) da pubblicare, si è proceduto ad una ragionata analisi dei dati statistici acquisiti dalla Direzione Generale di Statistica del Ministero della Giustizia, tenendo conto dei carichi di lavoro pro-capite, delle piante organiche degli uffici e delle loro scoperture, dei posti rimasti senza aspiranti nelle ultime procedure. Avvalendosi della collaborazione dell’Ufficio Statistico, sono stati poi elaborati alcuni criteri generali di indirizzo.
Sulla base di questi criteri il Consiglio ha dato copertura a n. 421 posti sui 556 vacanti, in uffici, giudicanti e requirenti, sia di primo che di secondo grado.
Quanto ai nuovi ingressi in magistratura, con le delibere del 6 febbraio e 16 ottobre 2019 il Plenum ha approvato la graduatoria definitiva dei vincitori dei concorsi in magistratura indetti con i DD.MM. 19.10.2016 e 31.5.2017, nominando 590 magistrati ordinari in tirocinio (330 saranno immessi in possesso nel 2020 e 257 nel 2021).
4 commissione
La Quarta Commissione, al fine di concludere la pratica relativa agli standard di rendimento, aperta fin dal 2007, e di aggiornare l’attività già svolta in materia nelle precedenti consiliature, ha costituito un gruppo di lavoro ad hoc, con il compito di riesaminare tutte le attività già svolte in questo decennio. Il gruppo ha terminato il lavoro e depositato le proprie relazioni, in data 13 maggio 2019 per il settore civile, in data 7 novembre 2019 per il settore penale giudicante ed in data 25 novembre 2019 per il settore penale requirente.
Va infine ricordata l’attività di raccordo, tra sorveglianza e ministero della Commissione mista sulla esecuzione penale, di cui pure ho la responsabilità. La Commissione segue l’operato dei magistrati impegnati nella tutela della salute, nella rieducazione dei detenuti e nello sviluppo delle misure alternative al carcere, affinché vengano garantiti i precetti costituzionali in condizioni di sicurezza per tutti, anche degli operatori, e nel rispetto dei principi di umanità ed effettività della pena.
Essa inoltre è un presidio di trasparenza, legalità e di sostegno per i magistrati che operano nella sorveglianza e nell’amministrazione penitenziaria. Si tratta di colleghi cui è richiesto di assicurare il rigoroso rispetto dei principi dell’ordinamento penitenziario, l’applicazione delle regole sulla detenzione speciale nei confronti di mafiosi e terroristi, ed il trasparente rapporto con l’autorità giudiziaria, cui vanno veicolate notizie e circostanze di sua competenza e nel cui interesse vanno preservate nella loro genuinità le fonti di prova derivanti dalla collaborazione con la giustizia dei reclusi. Ai magistrati del DAP va rivolto una particolare attenzione, poiché essi – come la storia ci insegna (Girolamo Tartaglione, Girolamo Minervini, Riccardo Palma e Luigi Daga) – hanno rappresentato spesso un argine a possibili strumentalizzazioni del sistema penitenziario da parte di apparati deviati riconducibili all’esecutivo o a forze ad esso antagoniste.
Abbiamo chiesto la costituzione di una Commissione Antimafia in seno al CSM – istituita dopo il 1992 ma poi dai primi anni 2000 mai più ricostituita – che sarebbe indispensabile a dare sostegno a magistrati impegnati in realtà difficili come Catania dove – accanto a fenomeni violenti – la criminalità mafiosa si esprime con forme insidiose e collusioni istituzionali.
Concludendo, la crisi della Giustizia ed anche quella dell’autogoverno risentono della crisi di rappresentanza più generale delle istituzioni elettive, ma non possono essere sottovalutate perché finiscono per impattare su presidi che riguardano l’interesse dei cittadini e la democrazia del nostro paese.
Noi come responsabili del governo autonomo e prima ancora come magistrati dobbiamo innanzitutto essere rigorosi con noi stessi, rinunciare agli atteggiamenti di parte, alla occupazione degli spazi, alle opzioni preconcette. Dobbiamo contrastare con ogni mezzo ogni condotta di appannamento della funzione. Dobbiamo considerare non come una minaccia, ma come una ricchezza, le critiche.
Ma al tempo stesso spetta a noi tutti e in particolare ai giovani, di essere determinati nella capacità di liberarsi dalla stretta dei condizionamenti che giungono da ogni potentato, esterno ed interno, nazionale o locale. E ricordare che il sistema di giustizia nelle democrazie è un sistema di regole a tutela degli ultimi, nel quale tutti devono poter svolgere senza preclusioni la propria parte. Gli imputati, per far valere i propri diritti, i giudici e i pubblici ministeri per affermare e promuovere la Giustizia, anche quando si tratti di dar torto all’imperatore e ragione al mugnaio di Berlino. E occorre ricordare sempre – a chi volesse appendersi ad uno dei due piatti della bilancia, o ridurre al silenzio il proprio interlocutore – che, per dirla con Sartre, se noi tutti vogliamo la libertà allora “io sono obbligato a volere insieme la mia libertà e la libertà degli altri; né posso prendere la mia libertà come fine, se non prendo come fine la libertà degli altri”.
Fonte: Antimafiaduemila
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