Di Gianni Barbacetto sul Fatto di oggi 17/01/2020
Punite Davigo: a chiederlo è l’ordine degli avvocati di Torino, con un lungo comunicato firmato dalla presidente, Simona Grabbi. Di solito gli avvocati tifano per l’innocenza, ma in questo caso è colpevolezza assoluta quella che vedono aleggiare attorno a Piercamillo Davigo, magistrato colpevole di aver rilasciato al Fatto Quotidiano, il 9 gennaio, un’intervista sulla prescrizione e sulla riforma del processo penale.
SMESSI I PANNI del difensore e del custode delle garanzie, l’avvocato Grabbi indossa quelli dell’inquisitore, o almeno del pubblico ministero, e stila una sorta di richiesta di rinvio a giudizio, anzi quasi già una sentenza di condanna. E chiede il pronto intervento della Procura generale presso la Cassazione: apra immediatamente un procedimento disciplinare a carico di Davigo. “Al fine di porre fine” – conclude il comunicato – alle sue “ormai quotidiane e avvilenti esternazioni”: fatelo tacere.
A Davigo – già pm di Mani Pulite a Milano, poi presidente di sezione in Cassazione e ora componente del Consiglio superiore della magistratura – è rivolta l’accusa più infamante per un magistrato: disprezzare la Costituzione. Egli dimostra infatti – scrive Grabbi – una “visione profondamente anti-costituzionale del processo penale”, ma anche e soprattutto “del ruolo dell’avvocato e della presunzione d’innocenza”. E calpesta i principi che sono espressione “di altrettanti diritti umani fondamentali”: il “diritto a un processo equo”, davanti “a un giudice imparziale”, con “garanzia del contraddittorio” e con la “presunzione di essere considerato non colpevole sino alla condanna definitiva”. Insomma: è un cupo inquisitore medioevale, questo Davigo, che non tiene in alcuna considerazione quei principi per cui – scrive sobriamente Grabbi – “l’Uomo ha sacrificato la propria vita e talvolta anche la libertà, così garantendo la nascita di quella società libera di cui oggi tutti noi beneficiamo”.
Che cosa aveva mai detto Davigo al Fatto? Tra l’altro, che “per la Costituzione, la pena ha anche funzione rieducativa: dunque chi ricorre solo per rinviarla differisce la rieducazione dell’imputato”. Che per abbreviare i tempi del processo è necessario incentivare i riti alternativi: “Oggi li scelgono in pochi perché conviene tirare in lungo e puntare alla prescrizione”. Che sarebbe bene “abolire il divieto di reformatio in peius in appello”, come in Francia: “Se ti condannano e tu appelli, può toccarti una pena più alta. In Italia non si può. Il che incentiva tutti a provarci”. Negli Usa patteggiano “quasi tutti: lì, se l’imputato si dichiara innocente, sceglie il rito ordinario e poi si scopre che era colpevole, lo rovinano con pene così alte che agli altri passa la voglia di provarci”.
SCANDALO: per l’avvocato Grabbi è una “concezione inquisitoria del processo penale tipica degli Stati autoritari”; è una visione in cui l’imputato è un “presunto colpevole” e in cui, con “la determinazione della pena”, il giudice si vendica “della mancata scelta di riti deflattivi, in palese violazione dei diritti costituzionali”. Inaccettabile, per l’Ordine degli avvocati.
Non solo: Davigo dimostra – scrive Grabbi – “un profondo disprezzo del ruolo istituzionale dell’Avvocato nel processo, disegnato come l’istigatore di condotte processuali dilatorie al solo fine di poter locupletare abusando di diritti che il processo riconosce all’imputato o finanche espletando attività difensiva del tutto inutile, qualora l’assistito sia ammesso al gratuito patrocinio, al solo fine di aumentare la parcella”. Tradotto: per Davigo gli avvocati tirano in lungo i processi puntando alla prescrizione e a incassare ricche parcelle dal cliente oppure (se ha il gratuito patrocinio) dallo Stato. “Oltremodo inaccettabile” che la pensi così.
Ma l’avvocato Grabbi esclude che succeda? Forse vive nel Paradiso subalpino del Diritto. Ma avremmo qualche esempio da farle, almeno qui sulla Terra.