Di Coniare Rivolta
Dopo decenni segnati da una dinamica dei prezzi stagnante, il ritorno di tassi d’inflazione elevati e persistenti nelle economie avanzate, in particolare quelle occidentali, è stato il fatto economico più rilevante degli ultimi anni.
Abbiamo già discusso le conseguente devastanti dell’inflazione sui salari reali e sulle condizioni materiali di milioni di lavoratrici e lavoratori in tutta Europa, mettendo a nudo le misure implementate dalle istituzioni europee, a partire dal rialzo dei tassi della BCE, tutte orientate a tutelare i profitti e scaricare il prezzo dell’inflazione esclusivamente sui lavoratori.
Diventa allora indispensabile ragionare su quali potrebbero essere gli strumenti a disposizione dell’intervento pubblico per contrastare la dinamica inflativa e al contempo tutelare il mondo del lavoro. Questo articolo si concentra sul controllo dei prezzi, una misura particolarmente sgradita agli economisti mainstream di tutto il mondo, recentemente tornata al centro del dibattito.
Se lo shock inflazionistico si è propagato a partire dai beni energetici importati e dalle materie prime, ossia dal lato dell’offerta, va da sé che il rialzo dei tassi d’interesse avviato dalla FED – e poi dalla BCE – non costituisce uno strumento adeguato ad affrontare in modo efficace il problema, agendo sulla domanda e non avendo alcun impatto diretto sulla causa del problema.
I governi europei hanno perciò adottato ulteriori misure di contenimento delle conseguenze dell’inflazione, a partire dall’utilizzo della leva fiscale. Nel contesto italiano, nel corso del 2021-2022 il governo ha destinato circa 62 miliardi di euro (3,3% del Pil) – più del 90% nel 2022 – per mitigare l’effetto dell’inflazione su famiglie e imprese. Peccato che il sostegno sia stato fortemente sbilanciato a favore delle imprese, coprendo solo in parte le famiglie. A livello europeo, misure simili – finalizzate a contenere i prezzi energetici al dettaglio – sono state adottate anche da Belgio, Ungheria, Polonia, Spagna, Portogallo e Regno Unito.
In generale, le misure fiscali finalizzate al contenimento dei prezzi energetici consentono interventi mirati da un punto di vista settoriale e hanno mostrato una maggiore efficacia – al di là della portata dei singoli interventi e della loro temporaneità – rispetto all’obiettivo di ridurre nel breve termine le conseguenze della dinamica inflazionistica.
Si tratta, peraltro, di misure che nei fatti non sono servite né erano pensate per contenere l’inflazione, ma solo per alleggerirne le conseguenze per le tasche di lavoratori ed imprese, con una maggiore incidenza, come già detto, su queste ultime. In sostanza si tratta di far pagare l’inflazione alle casse dello Stato, senza dare nessun contributo al rallentamento dell’inflazione in sé, ma finanziando i profitti delle imprese.
Questo approccio mostra dei limiti evidenti, soprattutto nel contesto dell’Eurozona. Se il governo tedesco si è potuto permettere di stanziare 200 miliardi di euro a supporto delle proprie grandi aziende – per disincentivare delocalizzazioni verso paesi caratterizzate da costi energetici molto più contenuti, il minore spazio fiscale a disposizione ha già spinto il governo italiano a eliminare dal 2023 il taglio delle accise sui carburanti, con inevitabili ricadute sui prezzi, sul potere d’acquisto e sui consumi delle famiglie, persino a detta della Commissione Europea.
L’accettazione dei vincoli di bilancio europei riduce quindi lo spazio di manovra dei paesi più indebitati, limitando l’intervento pubblico a difesa delle famiglie e del tessuto produttivo e aggravando il processo di divergenza interno all’Eurozona. Non solo. Se i prezzi energetici dovessero rimanere a livelli strutturalmente più alti rispetto a quelli pre-crisi, la minaccia al tessuto produttivo si allargherebbe anche ai paesi con maggiore spazio fiscale, soprattutto per quanto concerne i settori energivori, che costituiscono un perno del modello di crescita europeo, basato sulle esportazioni.
Non è dunque un caso che l’Unione Europea abbia recentemente adottato misure più dirette di controllo dei prezzi. L’introduzione da parte dell’Unione Europea del price cap – una soglia massima di prezzo sul petrolio (60$ al barile) e sul gas naturale (180 €/MWh) – rientra tra queste misure.
Questa misura sposta l’intervento pubblico verso l’origine della questione inflazionistica – i prezzi dei prodotti energetici importati. Peccato che sia improbabile che riesca effettivamente a raffreddare i prezzi in maniera duratura. Le soglie individuate sono infatti altissime e quindi poco utili, soprattutto per quanto riguarda il gas – il cui prezzo al TTF oggi è intorno ai 50€/MWh. Ancor più importante, i futuri problemi in termini di approvvigionamento legati alla rinuncia al gas russo e al possibile taglio alla produzione da parte dell’Opec plus si scaricheranno nuovamente al rialzo sui prezzi, price cap o meno.
La capacità dell’Unione Europea di implementare politiche di controllo dei prezzi efficaci è dunque estremamente limitata in virtù della sua dipendenza energetica. Un blocco economico che importa il 55% della propria energia difficilmente può esercitare una qualche forma di influenza sul livello dei prezzi. Nel lungo periodo, senza adeguate politiche industriali rivolte al raggiungimento di una maggiore autonomia energetica, l’UE sarà alla mercè dei partner internazionali e subirà fiammate inflazionistiche cicliche originate nel comparto energetico, senza la possibilità di adottare le necessarie contromisure.
Viceversa, se guardiamo al caso degli Stati Uniti, ci rendiamo conto che il rallentamento dell’inflazione iniziato nel luglio 2022 non è stato il frutto del rialzo dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve, ma l’esito della massiccia vendita di petrolio implementata da Washington ricorrendo alle Riserve Strategiche di Petrolio (RSP) al fine di contenere il prezzo della benzina.
Dopo l’annuncio di marzo del ricorso alle RSP, il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti ha rilasciato 180 milioni di barili nell’arco di sei mesi, a cui si devono aggiungere ulteriori 15 milioni mobilitati nel dicembre 2022 e altri 60 milioni riconducibili ai partner dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE). L’impatto sul prezzo della benzina e sulla dinamica inflazionistica complessiva è stato rilevante.
In altre parole, una politica efficace di controllo pubblico dei prezzi passa necessariamente da una maggiore autonomia energetica e dall’implementazione di schemi di buffer stock, ossia interventi finalizzati a stabilizzare il prezzo di alcune merci strategiche (solitamente agricole o energetiche), attraverso il loro stoccaggio da parte dell’attore pubblico: quando si verifica un eccesso di offerta sul mercato, la merce viene acquistata a un prezzo basso e immagazzinata in modo che il suo prezzo non precipiti troppo, per poi essere rivenduta quando la sua scarsità inizia a manifestarsi, spingendo i prezzi verso l’alto.
Il recente ritorno dell’inflazione potrebbe dunque essere un’occasione per tornare al controllo pubblico dei prezzi strategici – a partire dal comparto energetico. Questa misura, da sola, non è in grado di rimuovere le cause strutturali del fenomeno inflazionistico, che riguardano l’autonomia energetica europea, le catene di approvvigionamento globali e gli ostacoli della transizione energetica. Il controllo dei prezzi può tuttavia offrire il tempo indispensabile per aggredire queste problematiche, evitando al contempo che il potere d’acquisto delle famiglie sia eroso e il tessuto produttivo desertificato a causa dei maggiori costi energetici a livello internazionale.
La domanda allora sorge spontanea: se esiste un’alternativa al rialzo dei tassi e al ritorno alle politiche di austerità, perché non viene attuata anche nel contesto europeo? L’introduzione di un sistema di controllo dei prezzi avrebbe effetti collaterali decisamente più contenuti rispetto alle politiche monetarie restrittive, ma avrebbe l’enorme pregio di attribuire la maggior parte dei costi dell’inflazione ai soggetti economici più forti – le grandi multinazionali (energetiche e non) e le fasce economiche più abbienti, invece di scaricare per l’ennesima volta i costi della crisi sui soggetti più fragili.
Perché, dunque, non viene applicata una forma di controllo dei prezzi? Perché, molto semplicemente, il controllo dei prezzi danneggia i margini di profitto del capitale. Come emerso recentemente, la Banca centrale europea è ben consapevole del fatto che mentre i lavoratori e i consumatori trovano sempre più difficile fare i conti con il costo della vita, le imprese stanno ottenendo enormi profitti proprio dall’aumento dell’inflazione. Ma facciamo parlare i capitalisti. Paul Donovan, capo economista della UBS Global Wealth Management (che offre servizi di consulenza e di investimento a una clientela composta, evidentemente, da soggetti estremamente ricchi), non ha usato mezzi termini: “È chiaro che l’espansione dei profitti ha avuto un ruolo preponderante nell’inflazione europea degli ultimi sei mesi. La BCE non è riuscita a giustificare ciò che sta facendo – l’aumento dei tassi d’interesse – nel contesto di una spinta inflazionistica guidata maggiormente dai profitti”.
Una cosa inconcepibile! Come sempre, non c’è nessuna necessità tecnica di scegliere la strada che è stata intrapresa. L’alternativa c’è, eccome. Solo che parlare di controllo pubblico dei prezzi significa parlare di un sistema che metta dei limiti rispetto alla capacità delle imprese di generare profitti smisurati e questo risulta inaccettabile, specialmente nel contesto europeo.