Le misure cautelari sono state emesse dal Gip su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri, dell’aggiunto Giuseppe Lombardo e dei sostituti Domenico Cappelleri e Paola D’Ambrosio
Tratto da: Antimafiaduemila
Autorità portuali e funzionari infedeli, fra cui un appartenente all’Ufficio Antifrode dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, sono stati complici dello smistamento di ingenti spedizioni di cocaina, anche di 2 tonnellate, che approdavano al porto di Gioia Tauro.
Nella qualità di “addetto allo scanner“, il funzionario dell’Ufficio antifrode, avrebbe alterato “gli esiti della scansione radiogena” operata su un container che viaggiava a bordo della nave MSC Adelaide, proveniente da Santos, in Brasile, e sbarcato poi al porto di Gioia Tauro il 18 dicembre 2020. Dentro c’erano 300 chili di cocaina importati, stando alle indagini della Dda, dagli indagati Domenico Iannaci e Giuseppe Papalia, anche loro arrestati.
In cambio del 3%, circa 261mila euro, il dipendente dell’Agenzia delle Dogane avrebbe oscurato “le anomalie riscontrate attestando la coerenza della scansione con il carico dichiarato”. Tra il 7 e il 20%, invece, era la percentuale incassata dalle varie squadre di portuali infedeli.
Il carico, consistente in circa 1.920 panetti di cocaina, che avrebbe dovuto eludere i controlli effettuati con l’utilizzo dello scanner, è stato tuttavia intercettato e posto sotto sequestro dai Finanzieri.
L’indagine, anche tenendo in considerazione la presunzione di innocenza, dimostra come la leadership della ‘Ndrangheta nel narcotraffico di cocaina e, soprattutto, di come sia in grado di ricavare da essa enormi guadagni.
Oltre ai funzionari infedeli vi sarebbe stata una vera e propria organizzazione che avrebbe assicurato la logistica del narcotraffico come se fosse una società di servizi. Nello specifico era articolata su tre distinti livelli di soggetti coinvolti: esponenti delle principali famiglie di ‘Ndrangheta, in grado di garantire l’importazione delle partite di cocaina in arrivo dal Sudamerica; coordinatori delle squadre di operai portuali infedeli che avrebbero retribuito la squadra con una parte della “commissione”, variabile tra il 7 e il 20% del valore del carico, ricevuta dai committenti, pari ad oltre 7 milioni di euro; operatori portuali materialmente incaricati di estrarre la cocaina dal container “contaminato” e procedere al trasporto del carico verso luoghi sicuri.
Dietro tutto, secondo la Dda, si nascondevano le cosche Piromalli, Crea, Alvaro, Gallico, Facchineri e Auddino-Ladini-Petullà. “Compà, lì è casa nostra…meglio di tutti gli altri porti. Noi lì stiamo con chi gestisce tutto…E sono amici da 25 anni…Compà con gente apposto da lì non partono 500-1000 dovete parlare di 2mila in su”. Era Bartolo Bruzzaniti: stava parlando di un porto del Sudamerica.
Bruzzaniti è tra le 36 persone arrestate e con lui suo fratello Antonio Bruzzaniti e i campani Bruno Carbone e Raffaele Imperiale. Quest’ultimo è ritenuto un soggetto di rilievo criminale assoluto ed è stato recentemente espulso da Dubai.
L’operazione costituisce l’epilogo di complesse indagini, nel cui ambito sono state sequestrate oltre 4 tonnellate, un carico notevole che secondo gli investigatori, avrebbe fruttato alla ‘Ndrangheta 800 milioni e 700 mila euro.
I militari hanno eseguito l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri, dell’aggiunto Giuseppe Lombardo e dei sostituti Domenico Cappelleri e Paola D’Ambrosio: ben trecento militari del comando provinciale della Guardia di Finanza sono stati coinvolti nell’operazione che stamattina ha portato all’arresto di 36 persone (di cui 34 in carcere e due ai domiciliari) e, al sequestrato di beni per 7 milioni di euro.
Anche forze internazionali hanno avuto il loro ruolo: Europol, la Drug Enforcement Administration (D.E.A.) americana e la D.C.S.A (Direzione centrale per i servizi antidroga).
Per il procuratore Giovanni Bombardieri, “l’importanza di quest’operazione sta nell’aver ricostruito l’operatività di alcuni gruppi di operatori portuali che erano dediti stabilmente e sistematicamente al servizio di cosche di ‘Ndrangheta per esfiltrazioni di individuati carichi di droga”. “Ci tengo a precisare – ha concluso Bombardieri durante la conferenza stampa – l’evidente responsabilità personale degli indagati e non del sistema portuale di Gioia Tauro che è un’economia sana e legale assolutamente non coinvolta nell’inchiesta. Ciò non di meno non possiamo nascondere che, all’interno di quel sistema portuale, vi erano alcuni operatori portuali che in realtà erano dediti quasi esclusivamente ad attività illegali. Più cosche di ‘Ndrangheta facevano riferimento a questi esfiltratori di sostanza stupefacente dal porto di Gioia Tauro”. (Articolo continua dopo il video)
La logistica del narcotraffico
La tecnica era questa: individuata l’area di sbarco idonea allo scopo, il container con la droga veniva posizionato di fronte a quello in “uscita”, lasciando tra i due la sola distanza necessaria all’apertura delle porte per lo spostamento della merce illecita. Al di sopra dei due container, quindi, ne veniva adagiato un terzo, denominato appunto “ponte”, con lo scopo di celare, anche dall’alto, i movimenti nell’area sottostante. Una volta allestita l’area, al fine di non destare sospetti, i portuali infedeli venivano portati sul luogo delle operazioni, nascosti all’interno di un quarto contenitore, che veniva adagiato nella medesima fila ove era stata allestita la struttura. Terminate le operazioni, dunque, ai container venivano applicati sigilli contraffatti. A quello proveniente dal Sudamerica veniva apposto un sigillo “clone”, spedito dalla stessa organizzazione fornitrice ed occultato all’interno di uno dei colli contenenti la sostanza stupefacente, mentre al container in uscita veniva apposto un sigillo fasullo, predisposto dalla compagine criminale incaricata del recupero della droga.
Cocaina occultata dai narcos colombiani
I narcotrafficanti colombiani avrebbero ideato specifiche modalità di occultamento della cocaina: il carico di cocaina veniva accuratamente distribuito dentro il container di banane al fine di eludere i controlli. Nello specifico, secondo quanto riportato, i panetti di droga non dovevano essere inseriti nelle prime e nelle ultime file di scatole, poiché più facilmente ispezionabili.
Fonte foto: sovranitaperlitalia.com
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