L’impatto ambientale dell’esercito statunitense è enorme. Come la catena di rifornimento di una qualsiasi grossa azienda, la Difesa di Washington fa affidamento su un’estesa rete globale di navi portacontainer, camion e aerei cargo per rifornire le proprie truppe di tutto ciò che serve: dalle bombe agli aiuti umanitari, passando per il combustibile. Un nuovo studio pubblicato sulla testata The Coversation, ha calcolato l’impronta ambientale di questa gigante infrastruttura. I report sulle emissioni di gas serra solitamente si concentrano sul consumo di energia e carburante da parte dei civili, ma alcuni studi recenti, compreso questo, mostra che l’esercito statunitense è tra i maggiori responsabili dell’inquinamento nella storia. Tanto che, da solo, consuma più idrocarburi ed emette più gas nocivi per l’ecosistema della maggior parte dei Paesi di medie dimensioni. Se la Difesa di Washington fosse una nazione, il suo solo consumo di carburante la renderebbe il 47esimo produttore di gas serra al mondo, tra il Perù e il Portogallo.
Nel 2017, la Difesa statunitense ha acquistato circa 270 barili di petrolio al giorno e, attraverso la sua combustione, ha emesso più di 25mila chilotonnellate di diossido di carbonio (o anidride carbonica). L’aeronautica militare ha comprato greggio per 4,9 miliardi di dollari, la marina per 2,8 miliardi, l’esercito per 947 milioni e il corpo dei Marine per 36 milioni.
Non è un caso, però, che le emissioni dell’apparato militare statunitense vengano spesso ignorate dagli studi sul cambiamento climatico. Prima di tutto, è molto difficile ottenere dati rilevanti dal Pentagono o da altri dipartimenti della Casa Bianca. Perdipiù Washington, nel 1997, ha richiesto una deroga al Protocollo di Kyoto, che la esonerava dal riportare tutti i dati sulle emissioni del proprio esercito. Una scappatoia che è stata eliminata dagli accordi di Parigi, ma il fatto che Donald Trump abbia promesso di uscirne nel 2020 rende pressoché nullo questo risultato. Questo studio è basato su dati raccolti grazie a diverse richieste FOIA (Freedom of Information Act) inoltrate all’Agenzia per la logistica della Difesa statunitense, il colosso burocratico che si occupa di gestire la catena di rifornimento dell’esercito, compresi l’acquisto e la distribuzione del carburante.
L’esercito degli Stati Uniti ha compreso da tempo di non essere immune dalle potenziali conseguenze del cambiamento climatico, riconoscendo quest’ultimo come un “moltiplicatore di minacce” in grado di esacerbare rischi preesistenti. Molte basi militari, anche se non tutte, hanno iniziato a prepararsi per affrontare i danni del riscaldamento globale, come ad esempio l’innalzamento del livello del mare. E non si può nemmeno dire che la Difesa abbia ignorato la propria fetta di responsabilità. Come già mostrato in passato da The Conversation, l’esercito statunitense ha sì investito nello sviluppo di fonti di energia alternative, come i biocarburanti, ma lo ha fatto in misura del tutto minoritaria rispetto all’ammontare totale delle spese per il carburante.
La politica ambientalista dell’esercito statunitense resta dunque contraddittoria: c’è stato qualche tentativo di rendere più sostenibili alcuni aspetti delle proprie attività, attraverso l’uso di elettricità proveniente da fonti rinnovabili per alimentare le basi ad esempio, ma rimane l’istituzione che consuma più idrocarburi in tutto il mondo. Perdipiù, anche per gli anni a venire, resterà vincolata all’uso di velivoli e navi da guerra alimentati a carbone perché su questi si basano operazioni non concluse che andranno avanti a tempo indefinito.
Il cambiamento climatico è diventato un tema sensibile nella campagna elettorale per le elezioni del 2020. I principali candidati dei Democratici, come la senatrice Elizabeth Warren, o i membri del Congresso, come la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, chiedono iniziative concrete, come ilGreen new deal. Ma affinché queste possano essere efficaci è necessario prendere in considerazione anche la riduzione dell’impronta ambientale della Difesa di Washington, sia nella politica interna che nei trattati internazionali sul clima.
Lo studio di The Conversation dimostra che il contrasto al cambiamento climatico richiede la riduzione di diversi comparti del vasto apparato militare degli Stati Uniti. Poche altre attività umane sono così devastanti per l’ecosistema come la guerra. Riduzioni significative nel budget per la Difesa limiterebbero le capacità di Washington di lanciarsi in nuovi conflitti e questo determinerebbe un grosso calo nella domanda di combustibili fossili da parte di uno dei più grossi responsabili dell’inquinamento al mondo.
Non ha senso girarci attorno: i soldi spesi per procurare e distribuire petrolio in lungo e in largo nell’Impero statunitense potrebbero tranquillamente essere investiti nel Green new deal, qualsiasi forma prenderà. E se non in questo, non mancano certo i settori che potrebbero beneficiare di qualche fondo in più; qualsiasi opzione sarebbe più valida di finanziare una delle più grandi forze militari nella storia dell’umanità.
Questo articolo è stato tradotto da The Conversation.
Fomte: The Vision