I salari reali – ossia rapportati all’andamento dei prezzi – potrebbero ridursi ancora di più
Di Coniare Rivolta
L’aprile che abbiamo vissuto non è di certo quello che sognavamo ad inizio anno, tra una guerra che non mostra segnali di arresto, la questione pandemica non ancora risolta in Italia, e le bollette di gas e luce che continuano a galoppare. In questo quadro, tutt’altro che sereno, una notizia sembra riportare una ventata d’aria fresca per il mondo del lavoro: l’ISTAT ha appena calcolato che nel 2022 i salari nominali cresceranno dello 0.8% rispetto allo scorso anno. Per quanto sia una crescita flebile, verrebbe da tirare una boccata d’ossigeno, in quanto questo dato sembrerebbe indicare che i lavoratori, nonostante tutto, stiano preservando i propri standard di vita.
Purtroppo, non è così. Infatti, la crescita media delle buste paga non sarà sufficiente a compensare la crescita dei prezzi. A riprova di ciò, la stessa ISTAT stima per il 2022 un aumento del costo della vita (la temutissima inflazione) del circa il 6%: tradotto, se i salari nominali crescono di un non nulla, i prezzi dei beni e dei servizi comprati dai lavoratori crescono sensibilmente, sei volte tanto, con una conseguente perdita di potere d’acquisto di circa il 5%.
Si tratta di numeri puri e semplici che certificano il peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori, che, per l’effetto combinato di un aumento dei prezzi e dei salari pressoché stagnanti, vedono ridotta, in maniera significativa, la loro capacità di spesa e quindi il proprio livello di benessere. E c’è di peggio. I salari reali – ossia rapportati all’andamento dei prezzi – potrebbero ridursi ancora di più del 5% se la guerra dovesse prolungarsi fino alla fine dell’anno, poiché il prolungamento del conflitto proietterebbe l’inflazione in tutta Europa sopra la doppia cifra.
Nonostante questa chiara evidenza, le trombe del padronato non smettono di squillare. Ci ha pensato il presidente di Confindustia, Carlo Bonomi, a suonare la carica, definendo gli imprenditori italiani degli “eroi civili” che stanno facendo di tutto per contenere l’inflazione.
Il pensiero di Bonomi è riassumibile come segue. L’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime iniziato nel 2021 è figlio innanzitutto del rallentamento della produzione causato dalle misure di contenimento della pandemia, a fronte del rapido recupero della domanda globale dell’anno passato. Questi rincari sono stati in seguito esacerbati dalle recenti vicende belliche e geopolitiche, che hanno interessato due economie relativamente piccole su scala globale, ma molto importanti nell’approvvigionamento di materie prime strategiche (gas, grano, risorse minerarie), mettendo di fatto le imprese di fronte ad una scelta: da un lato, aumentare i prezzi di vendita (e quindi soffiare sul fuoco dell’inflazione) per preservare i propri utili; dall’altro, ridurre i propri margini di profitto per evitare che l’aumento dei costi dei materiali e dell’energia si traduca in incrementi dei prezzi dei beni e servizi finali, mettendo a repentaglio le proprie quote di mercato. Non è dato sapere quale sia la strada che effettivamente sia stata percorsa (secondo Bonomi, la seconda delle due): sta di fatto che nessuna delle due contempla (e chi l’avrebbe mai detto…) uno spazio per l’aumento dei salari dei lavoratori.
In altri termini, secondo Confindustria le imprese italiane, evitando che i salari crescano, starebbero facendo il possibile per contenere l’inflazione, ed in questo modo dando manforte alla ripresa dell’intera economia italiana. È vero tutto il contrario. Non solo Bonomi utilizza l’inflazione come una clava contro il lavoro, agitandola come uno spauracchio per erodere potere d’acquisto e quote di reddito ai lavoratori, ma questo approccio ha anche il piccolo difetto di comprimere ulteriormente i consumi e la domanda interna, finendo per essere deleterio anche per le prospettive di crescita. È la stessa Confindustria, del resto, ad essere in prima linea nella battaglia per evitare i rinnovi dei contratti collettivi, i quali implicherebbero aumenti salariali (lo stesso Bonomi ha definito ‘un ricatto’ la proposta del ministro Orlando di subordinare sussidi di Stato alle imprese a dei fantomatici aumenti salariali).
Pandemia e guerra, due piaghe di enorme rilevanza, non colpiscono tutti allo stesso modo. Nello specifico contesto del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da rapporti di forza già fortemente squilibrati, un continuo processo di precarizzazione e la conseguente frenata delle retribuzioni reali, gli accadimenti degli ultimi anni stanno rappresentando una ghiotta occasione per spostare ulteriormente l’ago della bilancia dalla parte delle imprese.
Difenderci dal carovita è possibile, a patto che le retribuzioni crescano almeno in linea con i prezzi, e ai padroni sia impedito di scaricare questi aumenti salariali su ulteriori aumenti dei prezzi. Solo in questo modo si contrasta l’inflazione e si difende il potere d’acquisto dei lavoratori. Ciò comporterebbe, ancor più inevitabilmente in un contesto di crescita dei costi delle materie prime, una riduzione dei margini di profitto. Ecco spiegato perché Bonomi continua a ripetere che l’aumento del costo del lavoro metterebbe “in grave difficoltà” le imprese. È attraverso queste lenti che dobbiamo leggere le parole dei rappresentati del mondo confindustriale, sempre al fronte quando si tratta di evitare che i profitti vengano erosi.
Tratto da: L’Antidiplomatico
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