Di Antonio Di Siena
Che i sindacati confederali fossero parte del problema è cosa arcinota eppure, ogni volta che ascolto le loro proposte, non riesco proprio a trattenere incredulità e rabbia.
A Bari il problema della Bosch rischia di buttare in mezzo alla strada 1700 famiglie, ciononostante nemmeno questo è motivo sufficiente per iniziare ad affrontare la questione industriale in modo radicale, così come ci aspetterebbe dalle organizzazioni a difesa dei lavoratori. Per loro, infatti, la soluzione è semplice: utilizzare i fondi Pnrr per favorire la riconversione produttiva.
Capito? Ancora fondi pubblici (che ammesso esistano davvero sarebbero per giunta contratti a usura con l’Ue) da destinare a beneficio di una multinazionale tedesca. E a sostegno di questa ottusa proposta gioca un ruolo di primo piano anche il vocabolario. La chiamano “crisi” ma crisi non è. Il gruppo Bosch infatti tutto è tranne che “in crisi”. Perché parliamo del più grande produttore al mondo di componenti per autovetture, fornitore della quasi totalità delle aziende automobilistiche, con un fatturato da capogiro. Se per loro sostenere la riconversione è un problema perché dobbiamo pagarla noi? Per tutelare l’occupazione? Avrebbe una sua logica, certo, più o meno come accettare un ricatto in stato di necessità. Una soluzione di cortissimo respiro che sposterebbe il problema solo un po’ più in là nel tempo, senza risolverlo.
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Quello che dovrebbe essere chiaro, soprattutto ai sindacati, è che la transizione green (che ha innescato questa ennesima vertenza) è un’operazione pensata e attuata proprio a beneficio della riconversione del gigantesco apparato industriale tedesco. Lo stesso che da decenni utilizza una moneta unica iper svalutata (per loro) e la compressione salariale (e disoccupazione) dei paesi mediterranei da quella derivante per ingrossare enormemente i fatturati e gonfiare l’export. Non a caso nei fondi Pnnr lo specifico capitolo di spesa sta lì in bella mostra. Accettare stupidamente di sostenerla in questo modo significa semplicemente assecondare il modello imprenditoriale tanto caro al liberismo (e al mercantilismo teutonico): ridurre i costi, massimizzare i profitti, socializzare le perdite. Mantenendo le mani libere per poter sempre delocalizzare (o minacciare di farlo) e proseguire indisturbati a drenare fondi pubblici mentre, pezzo dopo pezzo, le aziende statali finiscono in mano privata. E allora che fare?
Per come la vedo io di soluzione vera c’è ne soltanto una. Investire fondi pubblici che però – e a prescindere dal discorso transizione sì/no – siano funzionali a creare occupazione stabile. Aziende pubbliche, le uniche in grado di garantire la produzione e la permanenza sul territorio. Indebitarsi sì, ma con un piano industriale in tasca. Un grande piano di ricostruzione nazionale (moderno, ecologico, green o come vi pare) che abbia come principale obiettivo non fornire forza lavoro e salvagenti a gratis (per loro) ma ripopolare le desolate zone industriali con imprese statali. Garantendo posti di lavoro, sviluppo di tecnologia, progresso e benessere. Diversamente continueremo a formare manodopera specializzata da regalare all’investitore di turno (o da far emigrare), avviandoci sempre più rapidamente e irreversibilmente verso un modello da terzo mondo in cui paesi immiseriti sono pronti a calarsi le braghe per un tozzo di pane. Come farlo, l’hanno capito pure i bambini. Questa è la sostanziale differenza fra noi e voi. Noi un’idea di futuro per il paese ce l’abbiamo molto chiara. Voi, invece, per stupidità o convenienza, avete proprio smesso di pensarci. Finendo per pugnalarlo alle spalle mentre le vittime stentano a capire cosa gli stia realmente capitando.
Tratto da: L’Antidiplomatico
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