Di Coniare Rivolta
Sono state di recente pubblicate le conclusioni del Gruppo di lavoro “Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa”, elaborate da un gruppo di esperti su iniziativa del Ministro del Lavoro Andrea Orlando, nel quale si evidenziano alcuni aspetti preoccupanti delle condizioni economiche dei lavoratori nel nostro Paese. Un aspetto che emerge in maniera, ahinoi, particolarmente lampante, è il progressivo e inesorabile impoverimento dei lavoratori. Si tratta di un fenomeno che di certo non costituisce una novità. Il nuovo rapporto, però, ci permette, anche attraverso la constatazione di alcuni suoi limiti, di mettere in risalto le cause profonde di questo sfacelo.
Prima di venire ai dati, occorre specificare che il rapporto si focalizza su coloro che, pur avendo un lavoro, versano – o rischiano di versare – in una condizione di povertà. Ciò significa che non stiamo parlando dello stato o del rischio di povertà di tutta la popolazione, ma solo di coloro che hanno ‘la fortuna’ di avere un lavoro. Questo significa che nel rapporto non vengono prese in esame le condizioni materiali di coloro che un’occupazione non ce l’hanno (circa 2 milioni e mezzo di disoccupati) e di coloro che hanno ormai smesso di cercarlo perché certi di non trovarlo vista lo stato di salute complessivo dell’economia (circa 1 milione e mezzo di scoraggiati). Si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di soggetti che non hanno un reddito e che pertanto non navigano nell’oro.
Passiamo ora ai dati del rapporto. In primo luogo, si legge che un lavoratore su quattro ha retribuzioni talmente basse (sotto i 12mila euro l’anno) da essere a rischio povertà. Questo rischio, tuttavia, si concretizza in uno stato di povertà certificato per l’11,8% dei lavoratori: ciò vuol dire che più di una persona su dieci, pur avendo un’occupazione, si trova in uno stato di indigenza. Il dato sale al 22% se facciamo riferimento ai soli lavoratori part-time, molti dei quali disposti a lavorare per un numero maggiore di ore, ma che devono accontentarsi di un’occupazione a tempo parziale perché ne trovano una a tempo pieno. Un lavoratore su quattro, inoltre, ha retribuzioni relativamente basse, ovvero inferiori al 60% della mediana, ossia quella retribuzione che divide esattamente in due parti uguali la totalità dei lavoratori (ordinata dal lavoratore con il reddito più basso a quello più alto). Inoltre, un elemento che salta all’occhio nello studio è la persistenza di tali dati: quando i lavoratori finiscono al di sotto della soglia di povertà, in circa la metà dei casi non riescono a risalire al di sopra di tale soglia. In altre parole, una volta che si è diventati poveri si tende a restarlo.
Gli autori, oltre a elencare questi e altri fatti caratterizzanti la condizione economica dei lavoratori, si soffermano altresì sulle cause. In particolare, evidenziano che «dietro l’aumento della povertà lavorativa degli ultimi 15 anni si nascondono, oltre a salari stagnanti, l’aumentata instabilità delle carriere e l’esplosione del tempo parziale “involontario”, determinate dalla debolezza della struttura economica italiana (e quindi la crescita di “lavoretti” a basso valore aggiunto) ma anche da cambiamenti strutturali, come un aumento del peso dei servizi».
In conclusione, scrivono gli autori, è auspicabile l’adozione di cinque tipi di politiche per invertire il trend: garantire minimi salariali adeguati, rafforzare la vigilanza sui dati che le imprese e i lavoratori comunicano alla pubblica amministrazione, introdurre uno strumento di “in-work benefit” (ovvero uno strumento in grado di integrare i redditi dei lavoratori poveri), incentivare il rispetto delle norme da parte delle aziende e aumentare la consapevolezza di lavoratori e imprese, promuovere una revisione degli indicatori UE di povertà lavorativa.
Il rapporto in questione, di cui abbiamo riportato i punti principali, mira a sottolineare le cause del fenomeno della cosiddetta in-work poverty (lavoro povero) e a proporre politiche che aiutino a mitigarlo. In esso, però, mancano alcuni aspetti fondamentali, che, se portati alla luce, permettono di individuare le esatte dimensioni del problema.
Da un lato, infatti, vengono messe in rilievo soltanto alcune delle cause che ci hanno portato fin qui. Dall’altro, le proposte di policy non si discostano quasi per nulla da quello che è stato il canovaccio delle scelte politiche che hanno caratterizzato gli ultimi decenni e che sono la vera causa del dilagare della povertà lavorativa.
Tra gli elementi che mancano, nella ricostruzione delle cause, vi è senz’altro l’esplicito richiamo alla deregolamentazione del mercato del lavoro. L’instabilità delle carriere non è un caso, ma è proprio la conseguenza di tale deregolamentazione, iniziata con la proliferazione dei contratti atipici, e in particolare di quelli a tempo determinato, con conseguente precarizzazione della posizione dei lavoratori, e culminata nel Jobs Act nel 2015, che ha di fatto ridotto al minimo la portata dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, rendendo sostanzialmente residuali i casi nei quali il giudice può stabilire la reintegrazione dei lavoratori licenziati senza che ricorrano determinati requisiti di legge.
Sia l’esplosione dei contratti precari sia la neutralizzazione dell’art. 18 hanno messo i datori di lavoro in una posizione estremamente più favorevole nei confronti dei lavoratori. Se la seconda permette, infatti, di utilizzare con maggior facilità l’arma del licenziamento nei confronti dei lavoratori più riottosi, che magari richiedono condizioni di lavoro più dignitose, la prima ha fatto sì che il problema del licenziamento neanche si ponga: è sufficiente, infatti, minacciare il lavoratore di non rinnovargli il contratto.
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Altro elemento che manca, nell’elencazione delle cause, è la cancellazione, pressoché totale, degli strumenti attraverso cui i governi potevano intervenire nell’economia per sostenere consumi e investimenti, ovvero, in ultima analisi, per sostenere l’occupazione. Cancellazione che è avvenuta attraverso l’adesione al progetto di integrazione europea, e che ha comportato la rinuncia ai principali strumenti di politica economica: la politica monetaria accentrata nelle mani di una Banca entrale che ha come principale obiettivo quello di tenere sotto controllo l’inflazione (anche controllando l’aumento dei salari); la rinuncia alla politica dei cambi, che impedisce di ricorrere alla svalutazione come strumento per favorire l’export; gli stringenti vincoli alla spesa pubblica, che fanno sì che i governi siano fortemente limitati quando si tratta di immettere risorse nell’economia al fine di sostenere la domanda di beni e servizi.
E, elemento senz’altro non secondario, è venuto meno anche un ulteriore strumento di controllo delle dinamiche economiche di un’economia: il controllo dei movimenti di capitale, ovvero della possibilità, per le imprese, di portare soldi e impianti in Paesi che garantiscano più elevati tassi di profitto e peggiori condizioni per i lavoratori.
Si badi bene che si tratta di elementi che non solo vanno tutti in una sola direzione, ma che sono anche strettamente connessi tra loro. Lo spauracchio, agitato dagli imprenditori, della disoccupazione, attraverso il mancato rinnovo di un contratto precario o attraverso il licenziamento, sarebbe senz’altro meno efficace laddove l’economia interessata fosse caratterizzata da una situazione di piena occupazione o vi fosse almeno molto vicina. La minaccia di rimanere senza lavoro sarebbe un’altra arma senz’altro spuntata, se i lavoratori potessero trovare facilmente un’altra occupazione o se per i padroni fosse difficile portare i propri stabilimenti in un altro Paese. Invece, in assenza di strumenti adeguati, i lavoratori sono lasciati sostanzialmente alla mercé delle cosiddette “forze di mercato” (leggi: alla inesauribile sete di profitto dei datori di lavoro). L’immiserimento dei lavoratori è discendente diretto di quello degli strumenti di politica economica.
E tale impoverimento si riflette anche nelle proposte finali del gruppo di economisti incaricati dal ministro. Proposte che, prese singolarmente, sono senz’altro apprezzabili. Nessuno, in buona fede, potrebbe opporsi all’estensione della copertura dei minimi salariali o a una maggiore vigilanza sul rispetto di tali minimi. Il problema è che tra gli strumenti che vengono invocati mancano esattamente quelli più efficaci.
Per combattere disoccupazione e lavoro povero, non bastano la buona volontà e politiche compatibili con i vincoli attuali. Occorre una decisa inversione di marcia: spesa pubblica, controllo dei movimenti di capitale e stringente regolamentazione dei rapporti di lavoro, con forte limitazione dei contratti a termine e reintroduzione degli obblighi di reintegrazione nel posto di lavoro preesistenti alla riforma del Jobs Act. Si tratta degli unici strumenti realmente in grado di risollevare le sorti dei lavoratori e di modificare la rotta che ci ha condotto in una palude di povertà e precarietà, una rotta verso la quale il Governo Draghi ha dato un’ulteriore accelerazione con lo sblocco dei licenziamenti, la riforma delle pensioni, il taglio del Reddito di cittadinanza, le limitazioni dei congedi parentali e una riforma del fisco che avvantaggia i percettori di reddito medi e medio-alti.
Tratto da: L’Antidiplomatico
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