Tratto da: Antimafiaduemila
Il magistrato ospite su La7. Insieme a lui anche Saverio Lodato, intervenuto sulla storia della mafia
Pinocchio che chiede a un giudice-scimmia quale sia la sua corrente. In altre parole, l’ingenuità e l’innocenza del burattino di Collodi a confronto con la scaltrezza di un giudice dalle sembianze scimmiesche e scimmiottante, abile di saltare furbescamente da una corrente all’altra a seconda delle proprie convenienze. È questa l’immagine che il vignettista Mauro Biani ha tratteggiato in quello che, per certi versi, potremmo definire come l’immaginario della giustizia italiana agli occhi dell’opinione pubblica. A districare, analizzare, questo spaccato, è stata, ancora una volta, la trasmissione Atlantide, andata in onda ieri sera con una puntata tutta incentrata sui cosiddetti nemici della giustizia. A parlarne in maniera approfondita, toccando altri ed alti temi inerenti al mondo giudiziario, è stato Nino Di Matteo, in una lunga intervista a “tu per tu” con Andrea Purgatori, conduttore della trasmissione, e l’intervento anche di Saverio Lodato, scrittore e editorialista di questa testata. Entrambi gli ospiti sono usciti di recente in libreria con un volume di grande importanza dal titolo “I nemici della giustizia”, un libro che tratta temi come il correntismo, il carrierismo sfrenato, la gerarchizzazione degli uffici di procura e il collateralismo con la politica. Tutti argomenti sviscerati nel corso della serata.
I nemici della giustizia
La puntata di Atlantide prende il via dal terremoto che due anni fa ha colpito il consiglio superiore della magistratura, e con esso tutto il mondo della giustizia: il sistema Palamara. Un sistema marcio nel quale le correnti del Csm riuscivano a dettare legge su nomine ed emendamenti. Sono loro alcuni dei nemici della giustizia di cui Di Matteo ha parlato alle telecamere di Atlantide. I nemici della giustizia sono coloro che si “annidano nelle pieghe delle istituzioni, nella politica, nella magistratura. Sono coloro i quali, mentre proclamano di volere una giustizia più efficiente, in realtà la vogliono a due facce: efficiente, e certe volte anche spietata, con i poveracci; e invece timida, timorosa e con le armi spuntate nei confronti dei potenti”, ha affermato il magistrato, oggi consigliere togato del Csm. “Sono quei magistrati che, dopo gli scandali emersi nell’ultimo periodo, dicono di voler cambiare mentre in realtà si comportano come coloro i quali vogliono che le cose restino come sono state fino ad ora. Sono quei politici, e sono tanti e trasversali ai vari schieramenti, che vogliono approfittare di questo particolare momento di debolezza della magistratura per far diventare l’ordine giudiziario collaterale e servente rispetto agli altri poteri dello Stato. Sono coloro i quali si vogliono vendicare delle inchieste che comunque la magistratura ha svolto nei confronti del potere. Sono coloro che vogliono evitare che in futuro la magistratura possa continuare a condurre inchieste e processi di quel tipo”. I nemici della giustizia, secondo Di Matteo, “sono tanti, soprattutto in questo momento”.
Il sistema
Purgatori ha quindi chiesto cos’è il sistema di cui parla Luca Palamara, ex numero uno dell’ANM.
“Il sistema descritto da Palamara, che ha radici antiche e che non è fenomeno di ultimi anni, è un sistema in cui – ha risposto Di Matteo – come metastasi in un corpo originariamente sano, si sono diffusi sistemi di potere diverso fondati sul collateralismo della politica, sulla degenerazione del correntismo all’interno della magistratura, sulla gerarchizzazione degli uffici di procura, sulla burocratizzazione del ruolo del magistrato. Un sistema di potere che proprio perché è diverso, e contrasta con i principi della Costituzione, non esiterei a definire eversivo. E contro il quale tutti, non solo la magistratura ma in primo luogo la magistratura, abbiamo il dovere di reagire con forza per debellarlo. Non si può accettare che accanto ad un sistema Costituzionale se ne consolidi di fatto un altro che, sostanzialmente, sia contrario ai principi della Costituzione”. Nel corso della trasmissione sono state poi mandate in onda dichiarazioni di Palamara in cui parla dei magistrati Alfonso Sabella, Nicola Gratteri e Nino Di Matteo. Nomi di magistrati “fuori” dal sistema che sono stati osteggiati e penalizzati. Secondo Di Matteo le dichiarazioni di Palamara non possono essere messe da parte. “Palamara è stato una pedina importante, ma pur sempre pedina del sistema – ha detto il consigliere togato –. Pensare che oggi con la destituzione dal ruolo di magistrato di Palamara, la magistratura abbia risolto i problemi sarebbe un gravissimo errore. Palamara oggi, dopo essere stato incolpato disciplinarmente, ha comunque avuto il coraggio di cercare di spiegare in che cosa consisteva il sistema“. Sempre sul tema, ha aggiunto il magistrato, “così come non dobbiamo pensare che Palamara è stato il male assoluto ed è l’unico male assoluto, oggi sarebbe un grave errore pensare che tutto quello che dice è inattendibile. E pensare che cacciato dalla magistratura, la magistratura abbia risolto il problema.
“Certi mali, certe degenerazioni, certi vizi sono molto lontani da una risoluzione“.
Pericolo cordate
Stimolato dalle domande di Purgatori, Di Matteo ha spiegato il motivo per cui, nel libro scritto con Lodato, ha individuato, più nelle cordate che nelle correnti, un pericolo.
“Le correnti della magistratura nascono legittimamente come gruppi associativi che contribuiscono al dibattito culturale sui temi di giustizia. Nel tempo c’è una degenerazione per cui sono diventate dei veri e propri centri di potere che pretendono di condizionare tutta la vita del magistrato e soprattutto le attività di autogoverno, le nomine, le promozioni, la designazione dei magistrati per incarichi direttivi, ma sono riconoscibili.
Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori delle correnti, o trasversalmente alle varie correnti, delle cordate che di solito si formano magari attorno ad un procuratore o ad un magistrato particolarmente autorevole, composte anche da ufficiali di polizia giudiziaria, da esponenti estranei alla magistratura e che, come le correnti, pretendono di condizionare l’attività del Csm e dell’intera magistratura“.
Questo fenomeno, secondo il consigliere togato, non solo genera un piccolo centro di potere, ma un “pericoloso centro di potere con addentellati anche nell’esecutivo. Un pericolo perché questo fenomeno sfocia in una possibile, per non dire probabile, situazione di collateralismo con la politica“. Correnti e cordate, dunque, presentano un unico comune denominatore: l’esaltazione del criterio di appartenenza.
“Se tu appartieni alla corrente o alla cordata vieni tutelato in momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa e vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera. Se tu sei al di fuori di questi correnti e cordate non vieni considerato. Se poi, come abbiamo cercato di scrivere nel libro, hai anche la capacità e l’intelligenza di smascherare queste situazioni, diventi un obiettivo da marginalizzare, da contenere e se possibile da danneggiare“.
Di Matteo ha quindi ribadito il concetto per cui “la logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose. È la logica per cui se sei con me faccio tutto per te e se sei contro di me io ti marginalizzo. È il metodo mafioso che ha inquinato i poteri. Non solo la magistratura, ma anche altri poteri istituzionali. È quel metodo mafioso che noi istituzioni, perché dobbiamo continuare a credere nelle istituzioni, dobbiamo debellare con ogni forza“. Sul punto, il magistrato ha parlato poi del “senso dell’etica“. “Si è perso da parte di una quota importante della magistratura, ma c’è un’altra parte che non l’ha perso. Ci sono tanti colleghi che oggi sono indignati per quello che è venuto fuori. Non stupiti, ma indignati. Colleghi che vorrebbero parlare e reagire, ma non trovano la forza. Anche questo è uno degli scopi del libro. Io credo che in questo momento chi ne ha la voglia, la forza, la possibilità debba dare forza a questi colleghi e far capire all’esterno che la magistratura è anche altro. La magistratura ha costituito nella storia repubblicana di questo Paese il perno dell’attuazione dei principi costituzionali. È l’argine, il baluardo, contro la tremenda offensiva delle mafie e del terrorismo. Ed ha pagato questo suo ruolo con 28 magistrati uccisi“. Isolamento e delegittimazione, la storia si ripete
Nel corso dell’intervista Andrea Purgatori ha parlato anche di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, della loro storia, del loro isolamento e delegittimazione. Clamoroso come, soltanto da morti, i due magistrati palermitani sono stati ricordati e omaggiati per i loro sforzi. Un’ipocrisia di fondo che fa indignare e si aggiunge alla rabbia che permane dal fatto che le minacce di morte contro di loro erano serie e talvolta non credute.
“Anche oggi quando si diffondono notizie di possibili attentati nei confronti di magistrati, la reazione di molti che magari non hanno il coraggio tutti di manifestarla apertamente, ma la reazione strisciante è quella di far credere che siano delle messe in scena per accrescere la notorietà o la stima nei confronti del magistrato. Non è cambiato tantissimo”, sostiene Di Matteo. Sempre sul punto, ha aggiunto Di Matteo, “più sento e riascolto questi importanti documenti, più penso che la storia si ripeta sempre ciclicamente. Anche allora Giovanni Falcone, come ricordò quel 25 giugno del 1992 Paolo Borsellino in quella bellissima e drammatica conferenza a Casa Professa a Palermo, che accanto aveva Saverio Lodato, anche in quell’occasione Giovanni Falcone fu vittima del sistema, del Csm. Qualcuno non solo gli preferì un magistrato che aveva fatto prevalentemente civile fino a quel momento per il posto di consigliere istruttore a Palermo, ma furono dei magistrati che chiesero a quel candidato, a quel civilista di candidarsi per bloccare Falcone. È una storia in cui anche parte della magistratura si è mossa da sempre contro i magistrati più in vista, contro i magistrati che riteneva avessero fatto troppi fatti in avanti”.
Trattativa: sentenza d’appello, l’opinione di Di Matteo
Altro aspetto toccato in studio è quello del processo Trattativa Stato-mafia che Di Matteo, insieme a Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, ha condotto in primo grado chiedendo e ottenendo le condanne per boss, politici e uomini dell’Arma dei Carabinieri. Una sentenza quasi completamente ribaltata in appello lo scorso 21 settembre. Su questa sentenza, pronunciata dal giudice Angelo Pellino, Di Matteo non ha potuto commentare in maniera approfondita ma ha annunciato di attendere le motivazioni che hanno portato i giudici a questo verdetto “per capire perché per alcuni imputati è stato detto che il fatto c’è ma non costituisce reato”. Tuttavia, il magistrato si è sentito di esprimere alcune considerazioni in merito, premettendo di rispettare tutte le sentenze, anche questa: “Rispetto alla disinformazione imperante, sembra che il Paese abbia tirato un sospiro di sollievo dopo questa sentenza, come a dire: ‘Meno male’. Però vanno ricordati alcuni dati di fatto: il primo – ha ricordato il magistrato – è che c’è una sentenza definitiva, nel cosiddetto processo ‘Bagarella+25’ (celebrato a Firenze per la strage di via dei Georgofili) che descrive quella trattativa, quella interlocuzione di alti ufficiali dei carabinieri con Riina tramite Ciancimino, con la definizione di trattativa.
Dice che una trattativa ci fu, che fu iniziata da uomini dello Stato. E dice che quel contatto determino in Riina il convincimento che quella strategia delle bombe pagasse e quindi lo indusse a fare altre stragi. È una sentenza definitiva, si mettano il cuore in pace coloro i quali dicono che il ‘teorema della trattativa’ è una bufala. Oppure dimostrino che anche le sentenze definitive sono qualcosa di cui non tenere conto”.
Il problema, secondo il consigliere del Csm, “non è solo quella dell’attribuibilità di una fattispecie di reato all’uno o all’altro degli imputati. In tutta sincerità e serenità posso dire che io, e gli altri colleghi, sono orgoglioso di aver fatto emergere dei fatti storici importanti grazie al mio umile contributo. Fatti che l’opinione pubblica doveva conoscere e che hanno costituito – questo è indubbio, almeno da parte di Cosa nostra – uno dei motivi delle stragi. Il dialogo a distanza rafforzò nei vertici dell’organizzazione mafiosa il convincimento che la strategia delle bombe fosse quella giusta.
Questi sono fatti, così come la reticenza di tanti uomini politici, così come tanti altri fatti che sono emersi nel corso del dibattimento di primo grado che è durato 5 anni ed è consacrato in una sentenza di condanna di primo grado di 5252 pagine dense di motivazioni. Anche quella sentenza andrebbe letta. Quelli sono fatti storici che nessuna sentenza di assoluzione potrà cancellare”.
“Questa – ha affermato Nino Di Matteo – è la prima volta che parlo dopo la sentenza. Bisogna mettere anche qualche puntino sulle i e ricordare a coloro i quali si sentono sollevati con questa sentenza di assoluzione, che molti fatti sono emersi e indiscutibili. Quando le indagini e i processi di mafia alzano il tiro dal livello militare al livello politico o, ancora peggio, a quello istituzionale più alto, si scatena il finimondo. È accaduto sempre così. Inizia la delegittimazione dei giudici, delle inchieste e dei processi. Inizia quel fenomeno tipico di quella che definisco nel libro con Saverio Lodato la ‘tragedia italiana’: ovvero la confusione voluta tra la responsabilità politica e responsabilità penale. Emergono dei fatti che dovrebbero far scattare la responsabilità politica di molti soggetti politici e istituzionali, ma quei politici mentre attaccano i magistrati li usano come alibi. Dicono, cioè, ‘aspettiamo la sentenza definitiva dalla magistratura’”. “Questa è una confusione”, ha sentenziato il magistrato.
“Significa abdicare al ruolo della politica. Rispetto a certi fatti oggettivamente emersi che costituiscano o meno reato attribuibile all’uno o all’altro degli imputati, dovrebbero scattare responsabilità di tipo politico. Ma queste responsabilità di tipo politico in Italia non sono scattate nemmeno difronte a sentenze definitive. Non sono scattate nei confronti dell’allora senatore Andreotti nonostante una sentenza definitiva riconoscesse l’intensità e la gravità dei rapporti che lo stesso aveva intrattenuto prima del 1980 con i vertici di Cosa nostra. Non sono scattate responsabilità politiche nemmeno dopo la sentenza definitiva nei confronti del senatore Dell’Utri, condanna definitiva per concorso in associazione mafiosa. Eppure, la politica ha sempre ignorato i fatti emersi dai processi. Ha sempre atteso le sentenze definitive – senza agire prima – e poi non ha agito nemmeno dopo le sentenze definitive”. Questa è la grande “tragedia italiana”, ha concluso sul punto.
Le intercettazioni a Napolitano e il vespaio contro la procura
Sempre parlando del tema del processo sulla Trattativa, Di Matteo ha ricordato la vicenda delle intercettazioni di Nicola Mancino e i suoi dialoghi con Giorgio Napolitano al seguito della quale, ha ricordato Purgatori, “si è aperto un vespaio di accuse” contro la procura di Palermo.
“Quello – ha ricordato Di Matteo – è stato uno dei momenti topici in cui abbiamo sentito forte, nella consapevolezza che noi avevamo agito nelle regole e nessuno ha potuto mai dire che noi abbiamo fatto qualcosa di illecito, ma in quel momento ci hanno attaccati tutti: a partire dalle alte cariche dello Stato e i partiti di ogni fazione. Tutti. E invece hanno trascurato un dato: noi abbiamo fatto il nostro dovere. E quelle conversazioni (ben quattro) sono rimaste segrete. Non sono state utilizzate per finalità diverse perché noi siamo dei servitori dello Stato, ma prima di tutto dei galantuomini. C’è stata imposta dalla sentenza della Corte costituzionale la distruzione e le intercettazioni sono state distrutte. Ma questo crea anche un vulnus con cui qualcuno un giorno potrebbe alzarsi e attribuire a quelle conversazioni dei contenuti che non esistono, inventati e non saremmo più in grado di smentirli documentalmente”. “Siamo stati accusati di aver agito come degli eversori, degli estranei eversori che, però, non avevano violato nessuna norma processuale. Quando abbiamo citato nel processo per la trattativa Stato-mafia il Presidente Napolitano per capire il senso di una lettera che Loris d’Ambrosio (suo consulente giuridico) gli aveva trasmesso affermando di essere timoroso di aver potuto costituire tra 1989 e il 1993 strumento di indicibili accordi, (morto di infarto e ci hanno attribuito anche la responsabilità del decesso) volevamo sapere dal presidente Napolitano se Loris d’Ambrosio gli avesse spiegato il senso di tali parole. Ebbene, quando abbiamo citato Napolitano – che rese una testimonianza per certi versi importante – tutti, a partire dai colleghi, avvocati e professori universitari, quando mi incontravano mi dicevano: ‘Bravi, avete fatto bene, avete agito secondo dei criteri di logica investigativa e processuale stringenti. Però un capo di Stato non si cita in Corte d’assise per motivi di opportunità’”.
La pessima riforma Cartabia
Nell’intervista, ampio spazio è stato dato anche al tema più e più volte discusso della riforma della giustizia Cartabia. Una riforma che, fin dal principio, ha incassato critiche asprissime e oggettive da parte di magistrati, avvocati, procure e finanche lo stesso CSM e per questo è stata ritoccata. Nonostante ciò, però, Nino Di Matteo continua “a ritenere che nonostante i correttivi la riforma Cartabia sia complessivamente una riforma pessima perché anzitutto prevede il meccanismo dell’improcedibilità che rischia di mandare in fumo tanti processi per reati anche gravi in appello e cassazione quando questi il giudizio di appello e Cassazione quando questi durino più del previsto. Soprattutto perché introduce poi il principio per cui il parlamento annualmente debba dettare alle procure i criteri di priorità nell’esercizio e dell’azione penale, andando contro il principio sacrosanto costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e aprendo uno squarcio pericoloso nella confusione tra poteri che devono rimanere diversi”. “Teoricamente – ha spiegato Di Matteo – esponiamo la magistratura al rischio che la maggioranza parlamentare di un certo orientamento politico, piuttosto che dell’altro, possa dire di perseguire i reati ‘da strada’ e solo se resta tempo occuparsi di corruzione e collusione del potere con la mafia. Significa aprire un varco all’affermazione che sia la politica a dettare l’agenda dell’opinione pubblica”.
“La riforma Cartabia – ha continuato il magistrato – è stata cambiata rispetto alla sua originaria previsione rispetto ai reati di mafia. Io mi chiedo con una certa preoccupazione, ma è proprio necessario che ogni volta sia l’allarme dei magistrati antimafia a orientare la politica nell’evitare di fare leggi che favoriscano i mafiosi? Possibile che non sia la politica a non sentire questa urgenza? Dobbiamo essere sempre noi magari a fare la figura di coloro che sono rimasti soli a lottare contro mafia mentre la politica si disinteressa”.
“La procura della Repubblica è il cuore propulsivo di tutta l’attività giudiziaria, a seguito della riforma sciagurata dell’ordinamento giudiziario del 2007, le procure sono state fortemente gerarchizzate. Sono aumentati a dismisura i poteri del procuratore Capo rispetto a quelle di tutti gli altri pm. È chiaro che controllare una decina di procuratori delle procure chiave del Paese significa mettersi in mano l’intera magistratura, è più facile che controllare 2000 pubblici ministeri. Ecco perché il sogno della parte malata della politica, quello di controllare la magistratura, rischia di avverarsi nel momento in cui, da una parte si gerarchizzano gli uffici di procura, e dall’altra si controllino e si ispirino le nomine dei procuratori capo di quegli uffici”. Andrea Purgatori ha quindi chiesto al suo ospite “come ne esce la magistratura da questa tenaglia fatta da una parte di scandali e dall’altra di tentativi di minare la sua indipendenza?”.
“Da una parte – ha risposto Di Matteo – ci vogliono delle riforme che devono tendere soltanto all’accelerazione dei processi per giungere nel merito a delle condanne e assoluzioni presto e che vengano poi eseguite le condanne. Dall’altra parte devono tendere ad evitare che le attività del Csm siano influenzate da correnti e cordate. Ma le riforme da sole non bastano, ci vuole uno slancio, un recupero di etica da parte di tutti i magistrati. Noi non dobbiamo sopire l’indignazione dopo gli scandali, non dobbiamo più nascondere la verità e avere il coraggio di denunciare i mali anche al nostro interno, di sanzionare le condotte che vanno sanzionate. Dobbiamo recuperare un concetto di fondo: la bellezza del nostro ruolo è solo quella di istruire e fare i processi, di giudicare, di cercare di accertare la verità. E non quella di fare carriera, di conseguire meriti, incarichi scientifici, notorietà e medaglie. Dobbiamo riscoprire l’etica che ci impone l’esercizio di un ruolo così delicato”. Il magistrato ha concluso il suo intervento in risposta a una domanda sul suo libro “Nemici della giustizia” e se questi non sia una sorta di “inno all’utopia”.
“Io non credo all’utopia”, ha detto Di Matteo. “Questo è un libro che insegue un sogno che spero sia realizzabile perché so che solo sognando si possono ottenere obiettivi e penso che il sogno di tutti i cittadini perbene in questo paese sia recuperare fiducia nella magistratura. Spero sia un sogno che si possa realizzare”. “In Italia nessun governo ha ingerito fino in fondo la necessità di fare antimafia”
A prendere il posto di Nino Di Matteo sul cubo nel quale sedeva il magistrato, è arrivato anche Saverio Lodato il quale ha esordito affermando che Di Matteo “ha ricostruito in maniera precisa come la storia della mafia sia quella della magistratura, la storia della magistratura sia quella della politica e come in questo Paese sin dall’atto di nascita della mafia vi è un rapporto privilegiato con la politica italiana”. “Se noi non partiamo da questo garbuglio iniziale – ha spiegato Lodato a inizio intervista – non capiremo ciò che accadde 150 anni fa né ciò che accade oggi”. Uno scenario aggrovigliato su sé stesso, in cui i due autori del libro si sono imbattuti durante la realizzazione del volume: “Parlando della magistratura ci imbattevamo nella mafia, parlando della mafia ci imbattevamo nella politica e nella mafiosità delle classi dominanti, del potere politico e dei governi che in Italia si sono succeduti”. “Forse – ha proseguito – in Italia non è mai esistito un governo che abbia ingerito fino in fondo la necessità di fare la lotta alla mafia. Quando è stato costretto dagli eventi lo ha fatto ma, come ha ricordato il dottore Di Matteo, non si doveva mai e non si deve mai superare un certo livello, altrimenti scattano le controazioni che innanzitutto colpiscono la magistratura perbene”.
L’asse mafia-politica: una storia fatta da trattative
Quindi Lodato, intervallato dal documentario sulla storia segreta dei rapporti tra Cosa Nostra siciliana e quella americana, ha ripercorso la storia dell’intreccio mafia-politica partendo dall’asse Sicilia-Stati Uniti.
Da Joe Petrosino, allo sbarco degli americani nell’isola. E poi ancora l’escalation del traffico di droga, la guerra di mafia, l’impegno di Giovanni Falcone negli Stati Uniti, le dichiarazioni di Buscetta, il maxiprocesso, le condanne, fino ad arrivare alla morte di Falcone e Borsellino.
Lodato, infatti, ha anche spiegato la differenza che esiste tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio. Anche se Cosa nostra americana sembrava non appoggiare la strategia stragista di Totò Riina, nella prima strage emergono dei collegamenti tra la mafia italiana e quella statunitense. “Ci sono una serie di telefonate diventate oggetto di indagine anche processuale in prossimità delle stragi da Palermo in America, ma come tutte le cose che tendono a salire troppo di livello, sono state avvolte da nebulose. Quindi oggi non siamo in grado di dire chi chiamava dal teatro di Palermo“. Nella strage di Via D’Amelio invece, come emerge da numerosi processi e dichiarazioni di collaboratori di giustizia, Cosa nostra sembra aver agito come mera esecutrice di ordini provenienti dall’esterno.
La latitanza di Matteo Messina Denaro
In conclusione, Lodato ha parlato dell’ultimo superlatitante corleonese: Matteo Messina Denaro. “È latitante ormai da 29 anni – ha affermato -. È impensabile al giorno d’oggi che possa mantenersi una latitanza del genere in assenza di complicità rispetto alla mafia da parte di apparati delle istituzioni dello Stato, di alti vertici delle polizie e delle armi che ci sono in questo Paese. Lui è il depositario di tutti i segreti della recente stagione stragista italiana a cavallo di Capaci e via d’Amelio e delle stragi del 1993 di Roma, Firenze e Milano“. E poi ancora: “Si dice che sia depositario dei documenti di Totò Riina, presi dalla villa che non fu perquisita. Ma a quei documenti mai trovati si sono aggiunti i successivi. Perché la storia è andata avanti per trent’anni ed è ancora oggi latitante. E questo ci riporta a quella figura iniziale di cui si è parlato all’inizio, seppur con le debite proporzioni: Lucky Luciano. Ci sono sempre personaggi che sono in grado di traghettare l’organizzazione mafiosa in quelle situazioni in cui tutto sembra definitivamente perduto. Quante volte si pensava che la sconfitta della mafia fosse dietro l’angolo? E invece c’è sempre un latitante. E una volta che verrà preso Messina Denaro ci sarà qualcuno che ne avrà preso il posto“.
Infine, Lodato ha concluso con una considerazione ulteriore sul dove possa oggi nascondersi il boss di Castelvetrano: “Io non credo che sia in Sicilia, anche se molti ritengono che lui non si allontani dal suo territorio nel trapanese. Ci sono state tante operazioni, hanno fatto terra bruciata attorno, colpendo parenti, amici, compagni. Magari può godere della protezione di qualche Stato straniero poco propenso a collaborare con l’Italia o con cui collabora qualche pezzo dell’Italia che ha sempre remato contro“.
Tratto da: Antimafiaduemila