di Lidia Undiemi
Il testo del PNRR, la cui stesura, si dice, è avvenuta a porte chiuse, è l’emblema di questa strategia tanto ambigua quanto pericolosa
Il potere lo sa, certi obiettivi estremamente impopolari è meglio celarli dietro frasi a effetto e cambi di prospettiva.
Non si attacca direttamente il lavoro ma lo si fa scomparire tra le righe di una inquietante celebrazione, esaltazione e osannazione dell’interesse di profitto delle grandi imprese e del capitale straniero, considerato un interesse superiore e quindi un principio cardine delle riforme in tutti i settori (giustizia, pubblica amministrazione, appalti, ecc.).
Non si dice esplicitamente che è necessario ridurre ancora gli stipendi, ma si ripete ossessivamente che bisogna spingere la concorrenza, la produttività e la competitività.
Non si confessa che la tecnologia applicata a molti processi produttivi sta spingendo a una generalizzata precarizzazione dei posti di lavoro, ma la si considera un traguardo imprescindibile, la panacea di tutti mali su cui investire senza tregua.
Tutto il piano, e questo è evidente anche nei documenti della Commissione Europea che ha imposto riforme dettagliatissime all’Italia – “riforme ambiziose per rimuovere gli ostacoli al contesto imprenditoriale“ (Proposta di Decisione del Consiglio relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia, 22 giugno 2021) – pena il blocco del finanziamento, sono modellate sul linguaggio aziendalistico, come se lo Stato fosse esso stesso nulla di più e nulla di meno che un lavoratore precario costretto ad accettare qualsiasi condizione pur di sbarcare il lunario.
Prima di entrare nel merito del tema del lavoro, è importante premettere che il PNRR altro non è che una forma di finanziamento che un’entità sovranazionale (ritornata a essere la versione quasi originaria della Troika intra-UE) eroga a un paese purché questo si sottoponga a un rigido commissariamento (qui una indagine approfondita), vale a dire a un piano di riforme calato dall’alto, qual è appunto il PNRR.
Uno Stato viene quindi trattato come un mero debitore che deve ignorare i suoi elettori e rispettare per un certo numero di anni (almeno) un’agenda politica dettata dalla leadership europea, tanto interessata a favorire gli interessi del capitale internazionale nei paesi membri.
Il rapporto che si instaura è a dir poco spaventoso: il denaro concesso allo Stato, pari a 191,5 miliardi di euro, viene erogato a rate, previa verifica della effettiva realizzazione delle riforme imposte. Esattamente quello che è accaduto in Grecia.
Già solo questo sarebbe sufficiente a far saltare dalla sedia chiunque abbia un minimo di cognizione di cosa sia una democrazia.
Quello che di seguito verrà descritto si basa sul PNRR presentato dal governo alla Commissione Europea sulla risposta dell’istituzione europea (la decisione di esecuzione del Consiglio sopra citata con l’allegato contenente le richieste), che contiene appunto il piano di riforme.
Bollette, stangata pazzesca per le aziende: costi quintiplicati, molte stanno già chiudendo
Il capitolo sul lavoro è inesistente, capiamo perché
Al lavoro, si fa per dire, viene dedicato un capitolo dal titolo “Coesione e inclusione” (p. 198 del PNRR), ma appare subito evidente il vuoto di contenuti sui temi centrali della crisi del potere contrattuale dei lavoratori che si traduce in un calo generalizzato degli stipendi, anche attraverso forme spinte di outsourcing e delocalizzazioni all’estero. Le utlime vertenze che hanno avuto risalto a livello nazionale ne sono un chiaro esempio.
Una volta ignorato il piano del conflitto e della redistribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro da cui dipende la crescita della disuguaglianza, nel PNRR si discute di “occupazione femminile”, “parità di genere” e “incremento delle prospettive occupazionali dei giovani”, si fa un accenno, ma giusto un accenno, alla necessità di “porre attenzione” alla qualità dei posti di lavoro creati, nonché di garantire un reddito ai disoccupati durante “le transizioni occupazionali”. Una garanzia, quest’ultima, che si riferisce quindi agli ammortizzatori sociali nei periodi di non lavoro, ma attenzione “nel rispetto della sostenibilità finanziaria” prevista nelle raccomandazioni europee.
Il dettaglio degli obiettivi specifici contenuti nel piano, fornisce bene l’idea dell’assenza di vere e proprie politiche del lavoro volte a garantire una occupazione di qualità e ben retribuita.
Gli interventi si reggono infatti su quattro pilastri: politiche attive e formazione del personale, rafforzamento dei centri per l’impiego, creazione di imprese femminili e promozione dell’acquisizione di “nuove competenze”.
Insomma, la stessa inutile aria fritta degli ultimi 20anni almeno. L’inutilità di queste manovre va compresa sotto una duplice prospettiva. Quella dell’idea falsificata secondo cui la crisi del lavoro è tutta dal lato della domanda, ossia dipende dal fatto che i lavoratori non hanno le “competenze” e che non sanno cercarsi il lavoro, e da qui la necessità di investire (ancora) nei corsi di formazione e nei servizi di incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Ora, riguardo al tema delle “competenze”, sappiamo benissimo che l’Italia sta subendo una metamorfosi pazzesca dei posti di lavoro incentrata sulla diffusione massiva delle attività basate sull’uso intensivo della tecnologia, al punto che i lavoratori somigliano sempre più a meri ingranaggi di una complessa fabbrica “virtualizzata”, che li costringono a svolgere lavori standardizzati, ripetitivi e altamente controllabili, dove quindi è il tempo di lavoro e non le competenze a essere il principale, se non l’unico, valore negoziabile con le imprese, e che spinge inevitabilmente gli stipendi verso il basso, contribuendo all’aumento dello sfruttamento del lavoro tipico delle grandi fabbriche materiali.
Si ignora che sono i sistemi informatici che processano le attività e che inglobano le conoscenze, ovvero le compentenze, per cui il lavoro svolto dai dipendenti si traduce sempre più in un’attività di data entry – si pensi alle attività amministrative e contabili, all’attività di assistenza alla clientela, per fare un esempio – o in attività prevalentemente manuali – come quelle svolte dai lavoratori di Amazon e della logistica in generale, oppure ancora quelle svolte da coloro che consegnano cibo a domicilio tramite app – allo stesso modo ripetitive e totalmente controllabili attraverso la tecnologia.
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Tutto ciò sta appunto spingendo verso una standardizzazione al ribasso delle competenze richieste ai lavoratori e conseguente anche degli stipendi erogati.
Questo significa inoltre che i lavori altamente qualificati (quelli che richiedono veramente le “competenze”) rappresenteranno sempre più soltanto una piccola porzione dell’offerta di lavoro.
La spinta alle delocalizzazioni all’estero sono una conseguenza di questa trasformazione, perché è ovvio che le imprese che inseguono il profitto sanno che molti di questi lavori possono essere svolti anche da persone all’estero pagate molto meno di un lavoratore italiano.
Davvero qualcuno è ancora convinto che il problema del lavoro dipenda dalle “nuove competenze delle nuove generazioni”?
Basterebbe avere posto l’attenzione almeno a una delle grandi vertenze di lavoro che si sono susseguite negli ultimi anni per comprendere l’assurdità del silenzio politico su uno dei veri grandi temi del declino del lavoro, per questo credo che l’assenza di un vero e proprio piano di rilancio, ovvero di protezione, del lavoro non sia casuale.
D’altronde, negli ultimi decenni abbiamo assistito a una lenta ma inesorabile distruzione dei diritti dei lavoratori (questa è la seconda prospettiva da cui osservare la scelta del governo e dell’Europa di relegare ai margini del PNRR il piano del lavoro), una riforma dietro l’altra per consentire alle imprese di potere ridurre gli stipendi e aumentare le possibilità del ricatto di licenziamento ingiusto con un pesante ridimensionamento dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’attacco ai lavoratori e ai sindacati nel capitolo “Concorrenza e imprese”: tagliare il costo del lavoro
In questa incredibile metamorfosi del linguaggio politico, dove ormai l’espressione “politiche del lavoro” viene pressoché usata solo per indicare la crisi dei lavoratori che necessitano di supporto economico, l’unico modo per comprendere cosa accadrà ai lavoratori è interpretare i capitoli dedicati alle imprese.
Tra i principali del PNRR vi è certamente il capitolo “Concorrenza e imprese” (p. 261 del PNRR), che prevede come assi portanti per accrescere la concorrenza sono i “maggiori investimenti” e la “maggiore competitività” delle imprese.
Si specifica subito che per attrarre gli investimenti e rendere i mercati più concorrenziali occorre far competere le imprese in termini di qualità dei prodotti (come se le imprese avessero bisogno della lezioncina dei politici per farlo) e – tenetevi forte – anche “in termini di costi, spesso motivo rilevante di delocalizzazione”.
Abbattere salari e stipendi
Uno dei principali obiettivi politici di questo governo per accontentare le richieste dell’Europa è quindi quello di aiutare le imprese a ridurre quei costi che spingono a delocalizzare all’estero.
Sapete qual è il principale costo che le imprese vogliono o vorrebbero abbattere attraverso le delocalizzazioni all’estero? Ovvio, il costo del lavoro, quindi il disincentivo alle delocalizzazioni su cui investirà la maggioranza ai sensi del PNRR è l’abbattimento di salari e stipendi, e più in generale dei costi legati alle condizioni di lavoro.
Un recente report dell’Istat mostra proprio come il fattore che più incide sulla scelta di trasferire all’estero attività o funzioni aziendali è per il 62,2 percento delle imprese la riduzione del costo del lavoro (Report Istat “TRASFERIMENTO ALL’ESTERO DELLA PRODUZIONE, ANNI 2015-2017 ”, 3 giugno 2019).
Anche uno studio pubblicato per la Regione Lombardia mette in evidenza che non soltanto in Lombardia ma anche nel resto d’Italia e dell’Europa, il motivo principale delle delocalizzazioni risiede nella volontà di ridurre il costo del lavoro (pubblicazione ed elaborazione PoliS-Lombardia su dati Istat, La delocalizzazione, Le imprese lombarde nel censimento 2019, working paper 4/2021).
Ora, se leggete il capitolo in discussione, vi renderete conto di come questo dato essenziale della riduzione dei costi (del personale) venga edulcorato da una combinazione tutto sommato elementare di frasi e contenuti confusi e vaghi.
Come avverrà il peggioramento delle condizioni di lavoro?
A questo punto, bisogna chiedersi come avverrà questo abbattimento del costo del lavoro.
Attenzione, non si prevede di intervenire direttamente sulla legislazione del lavoro e sulla contrattazione collettiva, così come accadde dal 2011 dopo la famosa lettera della Bce al governo Berlusconi per cui è assolutamente utile riportarne il contenuto:
“b) C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
- c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.
Seguì la riforma del lavoro Fornero con un primo attacco all’articolo 18 e ad altri importanti diritti dei lavoratori, e poi il Jobs Act con le stesse finalità.
Riguardo al tema specifico della delocalizzazione, chi lavora nel settore sa benissimo che oggi le grandi imprese fanno quello che vogliono, con un unico limite: le cause di lavoro. Migliaia di lavoratori hanno portato le imprese nei tribunali d’Italia contro le esternalizzazioni di massa che sono il preludio alle delocalizzazioni. Questo perché l’ordinamento giuslavoristico italiano, e invero anche quello europeo, pongono dei paletti ben saldi contro forme di espulsione del personale celate dietro finte cessioni di attività.
La norma perno della difesa del lavoro contro le esternalizzazioni è l’art. 2112 c.c. (qui una breve e intuitiva descrizione su lavoro ed esternalizzazioni), su cui il governo con la recente vicenda Alitalia ha scaricato non a caso tutta la sua furia capitalista facendo fuori “per decreto” migliaia di lavoratori (qui spiego come e perché).
Tolto questo piccolo argine delle norme contro l’outsourcing abusivo, non vi è alcun argine politico alle delocalizzazioni basate sul costo del lavoro, ovvero alla competitività basata sul taglio di salari e stipendi, né come già detto l’atteggiamento del governo sulla terribile vicenda Alitalia lascia intravedere un cambio di rotta.
Accadrà quindi che ai lavoratori e ai sindacati verrà posta un’unica via (There is not alternative, come direbbe la Thatcher): tagliare il costo del lavoro, seduti in civili e democratiche riunioni fino a che non si raggiunge un accordo (parafrasando il mega direttore galattico di Fantozzi).
Uno sguardo alle condizionalità imposte dalla Commissione Europea: la proletarizzazione del Parlamento
Come già accennato, la Commissione Europea impone moltissime riforme, compresi tempi e modalità di attuazione (“Traguardi, obiettivi, indicatori e calendario per il monitoraggio e l’attuazione del sostegno finanziario”).
Nell’ultima sezione (da p. 555), la Commissione Europea riassume le riforme da attuare per l’erogazione delle singole rate, atteggiandosi come un investitore con le prerogative di uno Stato: non rivuole indietro tutti i soldi ma il potere di decidere le sorti di un paese. In pratica un super governo che prescinde dal consenso democratico.
In totale 10 comode rate di finanziamento da erogare man mano che vengono realizzate le condizionalità (o riforme appunto), che sono più di 600 (gli articoli stampa ne riportano poco più di 500, io ne ho contate di più, ma potrei sbagliarmi) da realizzare in 6 anni, dal 2021 al 2026.
Per poter ricevere una parte dei versamenti del 2022, secondo Giorgio Musso dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani – così come riportato dalla stampa – entro l’anno l’Italia deve soddisfare ben 42 condizionalità. Si provi a immaginare a quali ritmi da catena di montaggio deve operare il Parlamento, i cui componenti sono destinati a subire una sorta di proletarizzazione delle proprie funzioni.
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Sorge spontanea una domanda: se le cose stanno così, perché andare a votare?
Dando invece uno sguardo al contenuto delle imposizioni, ancora una volta è possibile notare la gerarchia di ordine superiore che viene conferita all’interesse del capitale senza alcuna attenzione alla tutela del lavoro e degli stipendi, se non qualche timidissimo richiamo, come il tema della sicurezza “subordinata” nei porti (Eliminare gli ostacoli che impediscono ai concessionari di fornire direttamente alcuni dei servizi portuali utilizzando le proprie attrezzature, fatta salva la sicurezza dei lavoratori, purché le condizioni necessarie per proteggere la sicurezza dei lavoratori siano necessarie e proporzionate all’obiettivo di garantire la sicurezza nelle aree portuali) o un generico richiamo ai livelli occupazionali (ridurre, entro un periodo di tempo ragionevole, massimo cinque anni, la percentuale dei contratti in house dal 40 % al 20 %, fatti salvi i livelli occupazionali).
Tratto da: L’Antidiplomatico
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