di Pasquale Cicalese
Due giorni fa l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo ha anticipato il Piano Industriale per i prossimi anni dichiarando che tra gli obiettivi vi è quello di spostare 240 miliardi di euro di risparmio amministrato, depositi a vista, dunque liquidità dei correntisti, verso il risparmio gestito (funzione di banca d’investimento, private equity, investimenti obbligazionari e azionari), dichiarando inoltre che già 52 miliardi di depositi sono stati dirottati verso il “wealth management”, grazie a depositanti convinti di guadagnare di più e avere rendimenti più alti rispetto a quelli miseri dei depositi, mentre la banca si ricostituisce un polmone finanziario alternativo alle obbligazioni bancarie, crollate nel sistema finanziario italiano dopo la normativa del bail in e i casi di Popolare Etruria e popolari venete.
Ora, vi è da dire che la mossa pare avventata, soprattutto pare non faccia gli interessi del Paese, visto che la gran parte del risparmio gestito, che ammonta a 2100 miliardi di euro, è investita all’estero. A prima vista parrebbe dunque un’operazione anti sistema. In realtà ha una sua logica. Innanzitutto permette alla banca di non attuare tassi negativi per rispondere ai tassi bassissimi in eurozona, poi ai risparmiatori si offre una diversificazione del rischio con rendimenti più alti della liquidità e alla banca, tramite le sue associate Banca Imi (banca commerciale, che investe nelle imprese) e Fideuram, molto di più (wealth management) di aumentare masse amministrate per le loro finalità, guadagnandoci in commissioni. Da un punto di vista del Sistema Italia, se fosse realizzato, almeno in parte, questi 300 miliardi di euro potrebbero essere una massa finanziaria per investire nella Borsa Italiana e permettere alle aziende quotate di avere liquidità per acquisizioni all’estero e salti dimensionali.
L’esempio è la multinazionale Brembo, guidata da Alberto Bombassei (peraltro presidente della Fondazione Italia – Cina) che anni fa si quotò, da media impresa, e attuò una politica di espansione in Cina e negli Usa.
Il problema è che sono poche le imprese italiane quotate, per cultura e per sfuggire al fisco. Molte imprese non si quotano perché la borsa ha tra i requisiti stringenti la trasparenza dei bilanci. C’è da dire comunque che diverse banche, in primis Intesa San Paolo, sono riuscite negli ultimi due anni a convincere diverse imprese a quotarsi nell’Aim e nel progetto Elite. Con queste masse dirottate nel risparmio gestito, Banca Imi avrebbe la potenza di fuoco di aumentare il numero delle imprese quotate e di finanziarle. Un altro strumento sarebbe il private equity, cioè entrare nel capitale di imprese non quotate per operazioni di innovazioni manageriali e tecnologiche, oltre che per aumentare le dimensioni di impresa in vista, in futuro, della quotazione azionaria. Se così fosse il piano industriale di Intesa Sanpaolo avrebbe le caratteristiche di modernizzazione del Paese e da un punto di vista marxista (senza che loro lo sappiano) concorrerebbe ad una controtendenza alla caduta del saggio di profitto (la quotazione azionaria è vista da Marx e Grossmann in tal senso).
Ripetiamo, lo scetticismo rimane (non vorremmo che tali masse andassero solo nel casino dei mercati esteri), ma in ogni caso è da cogliere con interesse tale piano industriale, a cui si associa la volontà di Intesa Sanpaolo di avviare un piano di 30 miliardi per le imprese del sud e un altro di finanziamenti alle Zes di Napoli e Taranto. Da questo punto di vista la dichiarazione del Ceo Messina al Governo di pensare, nel caso, alla nazionalizzazione dell’Ilva, contro l’Unione Europea, ci dice che forse, dopo un decennio di assenza di politiche industriali da parte dei banchieri, qualcosa si stia muovendo. Bene questo pragmatismo, assente in politica e nei media. Ma la loro ottusità sta portando sempre più al declino, mentre c’è chi vede, ai piani alti, le cose con più pragmatismo. Non per ideologia, semplicemente per affari.
Fonte: L’ANTIDIPLOMATICO