Di Giorgio Bongiovanni
Con chi trattarono i boss? Con i fantasmi?
La trattativa tra Stato e mafia? C’è stata, ma per i carabinieri, Subranni, Mori e De Donno “non costituisce reato”. Per i boss mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, sì. Tanto che a loro la condanna è stata confermata.
E’ questo il primo dato che cogliamo leggendo il dispositivo della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania).
Sui giornaloni leggeremo i commenti dei soliti “vassalli”, “valvassori” e “valvassini”, al servizio del “potere” affermare che la trattativa Stato-mafia è una “boiata” pazzesca o una “bufala”. Lo stesso che hanno vergognosamente e falsamente affermato alcuni imputati tramite i propri legali.
Non è così e sono gli stessi giudici della Corte d’assise d’appello ad affermarlo nel momento in cui la formula delle assoluzioni non è stata “perché il fatto non sussiste”.
Evidentemente l’onestà intellettuale non è più di questo mondo. Eventualmente avrebbero dovuto sottolineare che, sebbene la trattativa c’è stata, i loro assistiti erano stati assolti.
Cosa vogliamo dire?
Che il reato contestato non è stata un’invenzione di qualche magistrato pazzo, accanito giudiziariamente contro gli imputati.
Il problema è che le responsabilità, come spesso è accaduto nel corso della storia, vengono scaricate sui “soliti” mafiosi.
Quando saranno scritte e depositate le motivazioni della sentenza le leggeremo con attenzione.
Perché, anche se le sentenze vanno rispettate, ci sono tante domande che sorgono.
Con chi hanno messo in atto i boss la minaccia e l’attentato al corpo politico dello Stato, per cui sono stati condannati? Grazie a chi, o come, hanno trasmesso quella minaccia ai governi che si sono succeduti dal 1992 al 1994?
Secondo i giudici non con Marcello Dell’Utri, l’uomo “cerniera” e mediatore tra la mafia e Silvio Berlusconi, così come viene descritto nella sentenza che lo ha condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa.
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Dunque tramite chi fu tentata la minaccia?
Perché è questo il quesito immediato leggendo la formula con cui è stata riformulata la condanna di Bagarella, cognato di Totò Riina, da 28 a 27 anni.
Siamo curiosi di comprendere come i giudici di secondo grado hanno valutato nello specifico il ravvicinato e inquietante contatto con l’ex mafioso di Palermo Vito Ciancimino, l’arresto di Totò Riina, la mancata perquisizione del covo in via Bernini, la sparatoria di Terme Vigliatore con il mancato blitz per la cattura del boss catanese Nitto Santapaola e la mancata cattura di Bernardo Provenzano, nel 1995, a Mezzojuso.
Fatti di cui si parla con analisi circostanziate nelle oltre cinquemila pagine delle motivazioni della sentenza di primo grado.
Aspetteremo di leggere ogni riga, augurandoci che i sostituti procuratori generali, Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, presenteranno ricorso in Cassazione, dove magari verranno fatte ulteriori valutazioni, leggendo i fatti e le prove fin qui acquisite che raccontano comunque la storia di un Paese che non è affatto normale.
Così come, già ci sentiamo di dirlo, non ci sembra né normale, né accettabile che mentre il Paese veniva dilaniato dalle bombe, c’era una parte di Stato che si avvicinava al sindaco mafioso Vito Ciancimino per comprendere il perché di quel “muro contro muro”. Segno evidente che proprio le stragi erano viste come un’anomalia in un “quieto vivere” tra Stato e mafia. E questi sono solo alcuni dei fatti che gli italiani onesti non possono accettare.
P.S.: leggo sui giornaloni, a commento della sentenza di ieri, un sacco di manipolazioni della verità. Quella che più indigna è certamente del professore Giovanni Fiandaca, docente universitario, che fa finta di essere ignorante dà dando per scontato una verità che ancora è parziale. Perché c’è ancora un terzo grado di giudizio da dover affrontare. E la Corte di Cassazione potrebbe ribaltare nuovamente il verdetto. L’arroganza del professore Fiandaca, sul Corriere della Sera, acceca la sua razionalità. Avrebbe dovuto almeno usare il condizionale nelle sue affermazioni. Anche se non si resta stupiti, visti i suoi pregiudizi su questo processo e sui pm che lo hanno condotto. Ha affermato che il processo era inutile e che il reato contestato fosse errato. Ma in questo è stato sonoramente smentito, tanto che il quadro accusatorio è stato considerato meritevole di giudizio da più giudici. Tutto ciò il signor Fiandaca non riesce ad accettarlo e, ancora una volta, dimostra la sua superba tracotanza.
Rielaborazione grafica by Paolo Bassani
Tratto da: Antimafiaduemila