Di Luca Grossi
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone in merito al delitto: “Convergenza tra Cosa Nostra e settori politici ed economici“
Il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa è stato ucciso il 3 settembre 1982, assieme alla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, e all’agente di scorta, Domenico Russo. Un massacro avvenuto in pochi attimi quando i killer della mafia hanno affiancato le auto in movimento sparando all’impazzata con i kalashnikov AK-47.
Le sentenze hanno accertato le responsabilità di Cosa Nostra con le condanne in via definitiva dei killer (Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, insieme ai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci) e dei cosiddetti “mandanti interni” a Cosa nostra (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci). Ma sono stati solo i mafiosi a uccidere dalla Chiesa? Chi era il Prefetto che aveva avuto la pretesa di sfidare la mafia a Palermo? Chi glielo fece fare? Che cosa ha rappresentato la sua morte? Ma soprattutto: sono state date delle risposte ai numerosi interrogativi che ancora oggi riaffiorano prepotentemente dopo 39 anni di distanza?
“L’omicidio di dalla Chiesa può certamente essere identificato come uno spartiacque, un punto di svolta della storia della mafia” aveva detto Antonio Ingroia nel lontano 2012. Una svolta caratterizzata da tutti quegli elementi tipici presenti nelle grandi stragi di Stato con tanto di sparizione di documenti e misteri.
I punti oscuri della morte di dalla Chiesa
Partiamo dalla valigia del Generale ritrovata nei sotterranei del Tribunale di Palermo.
Il quotidiano La Repubblica nel 2013 ha rivelato l’esistenza di una lettera anonima recapitata all’allora sostituto procuratore Nino Di Matteo (uno dei pm che indagava sulla trattativa Stato-mafia) nel settembre del 2012 in cui si parlava delle carte che alcuni carabinieri del Ros avrebbero portato via dal covo di Totò Riina, al momento dell’arresto nel 1993, ma anche di questa valigetta. “Un ufficiale dei carabinieri in servizio a Palermo – si legge nella missiva – si preoccupa di trafugare la valigetta di pelle marrone che conteneva documenti scottanti, soprattutto nomi scottanti riguardanti indagini che dalla Chiesa sta cercando di svolgere da solo”. Inoltre si parla anche di un ufficio riservato che il generale dalla Chiesa avrebbe avuto alla caserma di piazza Verdi, sede del comando provinciale dei carabinieri: “Era ubicato di fronte al nucleo comando del Rono e lì vi erano faldoni, appunti e messaggi”.
Anche il figlio Nando dalla Chiesa ha ricordato la valigetta del padre e interpellato da La Repubblica ha risposto: “Mio padre la portava sempre con sé, era una borsa senza manico, con la cerniera. Dopo l’omicidio, c’eravamo chiesti che fine avesse fatto. In tutti questi anni abbiamo pensato che fosse andata persa, nel trambusto di quei giorni. Evidentemente, non era così”.
Sui documenti c’erano anche i nomi di alcuni uomini delle istituzioni? Forse appartenenti a quella corrente andreottiana a cui il prefetto non avrebbe fatto sconti di nessun tipo?
“Non avrò riguardo per quella parte dell’elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori” aveva detto dalla Chiesa al più volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, poco prima di partire per la Sicilia. Del resto il prefetto di Palermo aveva chiesto poteri speciali per combattere la mafia così come aveva combattuto il terrorismo. Gli furono promessi dal ministro Rognoni ma concretamente non gli furono mai dati.
Il magistrato, Giovanni Falcone, al funerale del Generale dalla Chiesa © Letizia Battaglia
Questi tasselli formano poco alla volta un mosaico sempre più macabro e sinistro in cui prende forma la bestia nera delle indagini in seno alla Repubblica Italiana: il depistaggio.
E l’elemento principe che più di tutti ne può decretare l’esistenza sono le parole del capo dei capi Totò Riina (intercettate il 4 settembre 2013 nel carcere Opera di Milano mentre parla con il suo compagno d’ora d’aria, Alberto Lorusso). La conversazione registrata ha confermato che al generale sono stati effettivamente sottratti i documenti: “Loro – diceva il boss corleonese – quando fu di questo … di dalla Chiesa … gliel’hanno fatta, minchia, gliel’hanno aperta, gliel’hanno aperta la cassaforte … tutte cose gli hanno preso”. Chi sono “loro”? I servizi di sicurezza? Assai probabile.
“Trovammo su un ripiano la chiave della cassaforte” – aveva raccontato la figlia del Generale Simona dalla Chiesa nel 2016 – “che non avevamo notato nelle nostre ricerche, prima non c’era. E la cassaforte era vuota. La sfrontatezza che vedevamo era per noi una nuova ferita”.
I quesiti restano numerosi e le ombre degli uomini non appartenenti a Cosa Nostra presenti sullo sfondo dell’omicidio del prefetto di Palermo rimangono.
Del resto, che dietro a quel delitto non vi sia la sola mano di Cosa nostra è “testimoniato” anche dalla voce di mafiosi e collaboratori di giustizia. Sul punto vale la pena ricordare l’intercettazione ambientale dove il boss Giuseppe Guttadauro, uomo di fiducia del superlatitante Bernardo Provenzano e in quel momento reggente del mandamento di Brancaccio, mentre parla con Salvatore Aragona, anche lui medico e mafioso, dichiarava: “Salvatore… ma tu partici dall’ottantadue, invece… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a dalla Chiesa… andiamo parliamo chiaro…”. “E perché glielo dovevamo fare qua questo favore…”. Ad intercettare le parole del boss, nel 2001, erano i magistrati di Palermo coordinati dall’allora pm Nino Di Matteo, che indagavano sull’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento aggravato alla mafia.
Anche il collaboratore di giustizia Francesco Paolo Anzelmo, nel processo, aveva dichiarato che quell’eccidio non era stato determinato dalla guerra di mafia, ma era “una cosa che era restata fuori” e successivamente anche i pentiti Tullio Cannella e Gioacchino Pennino hanno fornito ulteriori spunti. Il primo, vicino a Pino Greco detto Scarpuzzedda, aveva raccontato la lamentela con quest’ultimo per avere dovuto organizzare il delitto (“Stu omicidio dalla Chiesa non ci voleva… Ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca”); mentre il secondo aveva parlato di convergenza di interessi esterni a Cosa Nostra. Una pista seguita a suo tempo anche dai giudici del primo maxiprocesso. Tanto che gli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in merito al delitto parlavano proprio di “convergenza di interessi tra Cosa Nostra e settori politici ed economici”.
Ed anche i giudici, nella sentenza di condanna dei boss mettono nero su bianco che “si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.
E poi ancora, sempre la figlia del prefetto, Simona, nel 2016 aveva ricordato un fatto semplice: “La mafia in quel momento non aveva convenienza nell’uccidere mio padre. Non aveva ancora i poteri per mettere in atto quel che aveva in mente. E non poteva nemmeno compiere delle indagini specifiche proprio perché non è quello il compito del Prefetto. E la mafia sapeva anche che uccidendo lui, la moglie e l’agente Russo avrebbe portato anche ad una reazione dell’opinione pubblica. Dunque perché si doveva uccidere?”.
La commemorazione di oggi in via Carini a Palermo © Giovanni Paparcuri
Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso dalla mafia?
Certo, Cosa Nostra ha fatto la sua parte. Ma forse, 39 anni dopo, sarebbe giunto il momento di dire che è stato assassinato dallo Stato-Mafia e dalla Mafia-Stato che avevano tutto l’interesse, sia a Roma come a Palermo, di vederlo morto. La Sicilia e l’Italia non sono più quelle di allora e a Palermo di Carlo Alberto dalla Chiesa resta un pallidissimo ricordo ma non si devono smettere di cercare quelle “menti raffinatissime” di cui parlava Giovanni Falcone, sempre presenti dietro ai delitti “ibridi” della nostra Repubblica.
Tratto da: Antimafiaduemila
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