Di Karim El Sadi
Coraggiosa, eloquente, accurata. Se volessimo descrivere l’ultima puntata di “Presadiretta”, in onda ieri sera su Rai 3, potremmo riassumerla con questi aggettivi.
La puntata, condotta da un brillante Riccardo Iacona, ha trattato in maniera dettagliata il caso di Julian Assange, il giornalista e whistleblower australiano. “Processo al giornalismo”, è il titolo dell’inchiesta che si è occupata con dovizia di informazioni di tutta la vicenda del fondatore della piattaforma WikiLeaks. Un tema molto scomodo, dalle prime pubblicazioni di materiale riservato statunitense sulla menzognera guerra al terrore, alla persecuzione giudiziaria che Assange tutt’ora è costretto a subire “per aver sfidato la nazione più potente del mondo, gli Stati Uniti”, come ha affermato Holger Stark, ex caporedattore Der Spiegel, uno dei tanti volti intervistati per la realizzazione della puntata. Oggi Julian Assange sta trascorrendo il suo terzo anno dietro le sbarre del carcere di massima sicurezza di Belmarsh, a Londra, dove è in attesa di conoscere il proprio destino: se verrà o meno estradato negli Stati Uniti.
Oltreoceano il fondatore di WikiLeaks potrebbe rischiare circa 175 anni di carcere per aver pubblicato documenti top secret tramite WikiLeaks. In pratica una condanna a morte. Ma uccidere Assange non significa uccidere solo un uomo innocente, ma il mondo del giornalismo nella sua interezza, come verrà spiegato nel corso della trasmissione. Ecco perché Iacona ieri ha sottolineato più volte trattarsi di una vicenda nella quale siamo tutti coinvolti e pertanto tutti dovremmo essere interessati a difenderlo. Come vuole ricordare “Anything to say”, l’opera artistica dello scultore italiano Davide Dormino mostrata ieri su Rai 3. Un’opera che raffigura Assange, Chelsea Manning (l’analista americana che passò i documenti ad Assange) e Edward Snowden (ex agente del NSA). Accanto a loro una sedia vuota sulla quale i cittadini dei vari paesi in cui viene allestita l’opera possono salire. Tra questi, anche Stella Moris, avvocatessa e compagna di Assange con il quale ha avuto segretamente due figli che vivono lontano da suo padre. “Salendo sulla sedia, accanto alla sua scultura non sono riuscita a non prendergli la mano”, racconta a Presadiretta emozionandosi. Lacrime, che sono l’esternazione di un dolore profondo, silenzioso e ingiusto che Julian e chi lo ama subisce solo perché ha osato raccontato la verità al mondo.
Iraq, dove tutto ha inizio
La storia di WikiLeaks (nata nel 2006) e di Julian Assange, per come l’opinione pubblica la conosce, inizia nel 2010. E’ in quell’anno che la piattaforma di whistleblowers (dall’inglese “segnalatore di illeciti”, ndr) capeggiata da Assange pubblica i primi di 400 mila segretissimi file sulla cosiddetta “guerra al terrore” americana in Iraq. Era il 6 aprile 2010. Si tratta degli “Iraq war loks, rapporti stilati dagli stessi soldati Usa giorno per giorno dal 2004 al 2009”, ha ricordato Iacona in diretta. “E’ la più grande rivelazione di rapporti classificati militari della storia”, ha sottolineato.
In quei file ci sono “civili uccisi, fosse comuni, corpi bruciati con acido nitrico e uomini torturati in modo orrendo (circa 1635 casi registrati)”, ha affermato il conduttore. Casi di tortura in cui “l’esercito americano ha lasciato fare: nel 2004, ad esempio, dicevano di non dare seguito alle denunce presentate a meno che non ci siano soldati americani coinvolti”, ha ricordato.
I report pubblicati da Assange documentavano il declino progressivo dell’invasione USA, certificata da quotidiani fallimenti, sconfitte, perdite di territori e vite umane. Il prezzo più alto però, come ha rammentato Iacona, “lo hanno pagato i civili iracheni: circa 200mila i civili morti dal 2003. E i report diffusi da Assange hanno permesso di scoprire altri 15mila uccisioni di civili di cui non si sapeva nulla”.
I file WikiLeaks li ha ottenuti grazie al contributo essenziale di Chalsey Manning (al secolo Bradley, ndr) che era in servizio a Baghdad come analista. “Chelsea Manning non si è voltata dall’altra parte, ha fatto uscire questi materiali e li ha inviati a un’organizzazione giornalistica”, ha detto intervistata Stefania Maurizi, giornalista italiana e amica di Assange.
“Nei file ci sono inoltre centinaia e centinaia di uccisioni indiscriminate di civili da parte statunitense di cui non si era mai saputo nulla prima”, ha ribadito. “Si tratta della task force ‘373’, soldati che ammazzavano gente che non avevano idea di chi fosse”. Secondo la giornalista “il valore di quei documenti è che smontava la macchina della propaganda americana con i suoi comunicati”. E ciò “che li manda in bestia è che questi file sfuggono loro in tempo reale e non dopo 30 anni quando ormai non frega più nessuno”. Tra i vari documenti c’è anche il famoso filmato intitolato “Collateral Murder” il quale mostra in dettaglio come il 12 luglio 2007, un elicottero Apache AH-64 statunitense spara a sangue freddo con fucili calibro 30 millimetri contro un gruppo di civili iracheni a New Baghdad. Tra le vittime ci sono il fotografo della Reuters Namir Noor-Eldeen e il suo autista Saeed Chmagh. Presadiretta ha intervistato i loro parenti che ancora oggi chiedono giustizia e la liberazione di Assange senza il quale non avrebbero saputo la dinamica drammatica in cui sono morti i loro cari. Ad oggi nessuno dei carnefici sull’elicottero quel giorno è stato condannato o incriminato.
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La fallimentare guerra al terrore
La guerra in Iraq è solo una delle varie guerre di natura americana avviate dall’occidente contro il terrorismo. O almeno è questa la narrativa atlantista che si va diffondendo da un ventennio. Ma ce ne sono state tante altre con molte sfaccettature e tutte fallimentari. Tutte hanno “comportato una violazione continua e costante dei diritti umani”, ha osservato Riccardo Iacona. Basti vedere le torture nel carcere di Abu Ghraib in Iraq, documentate dalle foto di Seimour Hersh nel maggio 2004. O i trattamenti degli internati a Guantanamo, prigione illegale con circa 900 detenuti di cui non si sa l’identità, senza avvocati, reclusi senza sentenze, senza diritti. Torturati ogni giorno, molti di questi usciti senza vita in bare. Tra i reclusi anche 22 bambini. Anche qui WikiLeaks ha dato il proprio contributo per restituire un briciolo di verità pubblicando i “Guantanamo Files” dove per la prima volta sono stati diffusi i nomi dei detenuti.
Nella trasmissione si punta il dito anche contro l’Italia e il servilismo nei confronti degli Stati Uniti e della guerra al terrore per la quale il nostro Paese ha speso 8,7 miliardi solo per la guerra in Afghanistan, oggi anch’essa rivelatasi fallimentare. Eppure nei primi anni duemila dopo che Colin Powell portò alle Nazioni Unite la fasulla provetta di antrace denunciando che in Iraq si stava producendo la bomba atomica (una delle più grandi menzogne del nuovo millennio), in Italia milioni di persone scesero in piazza a Roma per manifestare contro l’intervento in Iraq.
Era il 2003 e in quell’anno la sovranità nazionale venne messa in discussione in maniera clamorosa quando nei dispacci diplomatici tra l’ambasciata americana a Roma e gli Stati Uniti “si parlava dell’Italia come fosse il loro cortile di casa”, ha detto il giornalista Iacona. L’allora ambasciatore aveva scritto un rapporto confidenziale al Dipartimento di Stato USA in cui racconta cosa gli Stati Uniti hanno ottenuto dall’Italia per la guerra in Iraq “il governo ci ha messo a nostra disposizione aeroporti, porti e treni e abbiamo potuto trasportare ottomila truppe da combattimento, mentre da Aviano si è mossa sul suolo italiano la più grande brigata da combattimento autotrasportata dai tempi della seconda guerra mondiale”. Non solo. In quel documento l’ambasciatore sottolinea con soddisfazione che il governo italiano, allora guidato da Silvio Berlusconi, è riuscito “a fermare le proteste dei pacifisti che avrebbero potuto intralciare o fermare i treni o i camion che traportavano in Italia materiale militare”. Nel rapporto l’ambasciatore elogia Berlusconi per essere riuscito a supportare la guerra in Iraq nonostante la maggioranza degli italiani fossero contrari. “Anche se l’Italia può sembrare un Paese arcano e bizantino è il posto perfetto per fare i nostri affari politici e militari”, aveva aggiunto. Senza il contributo italiano la missione NATO non sarebbe stata facilmente realizzabile, come ha detto Franco Frattini al tempo ministro degli esteri. “Gli americani – aggiunge – hanno sempre avuto questa tendenza a considerare l’Italia come Paese che si può rapidamente piegare. Ma hanno fatto male i conti perché molte volte gli abbiamo fatto capire che certe cose non si potevano fare”.
Le “colpe” di Assange e la persecuzione
Tutto questo e molto altro Assange lo aveva raccontato e denunciato in maniera minuziosa aprendo gli occhi della comunità internazionale. I suoi documenti hanno cambiato per sempre il racconto delle guerre dell’occidente e per questa ragione Assange doveva essere punito. Il 10 novembre 2010, lo stesso anno delle due maxi pubblicazioni (quelle sull’Iraq e quelle sull’Afghanistan di luglio) il Tribunale di Stoccolma spicca un mandato di cattura per il giornalista. L’accusa, come lo hanno riportato i media al tempo, era di stupro contro due donne svedesi. “From hero to zero”, era il titolo del The Guardian. Con quell’accusa si macchiò l’immaginario collettivo di Julian Assange. Per chi gli è accanto è ovvio l’assioma della rappresaglia del sistema contro di lui. Ad ogni modo ieri Presadiretta ha sviscerato quel caso, poi archiviato, illustrando i punti critici e le falsità partendo da un elemento chiave che se preso in considerazione al tempo non avrebbe provato l’indignazione che provocò: “Le due donne non lo avevano accusato di stupro, volevano solo avere un test dell’HIV”, viene detto in trasmissione. Infatti al giornalista australiano viene contestato di non essersi sottoposto ai test medici sulle malattie sessualmente trasmissibili, condotte criminali per la legge svedese (n.d.a). In Svezia se l’atto sessuale è consenziente ma il mancato utilizzo del preservativo non lo è, questo è ugualmente considerato stupro dalla legge. Il mandato viene ritirato poco dopo, con i pubblici ministeri che citano prove insufficienti per l’accusa di stupro.
A fine novembre 2010, la polizia svedese emette un mandato di arresto internazionale per Assange con “stupore delle stesse due ragazze”, afferma la Maurizi. Ecco che dopo poco, entrando e uscendo dalla detenzione domiciliaria, Assange ha ottenuto rifugio
nell’ambasciata dell’Ecuador che gli ha offerto asilo politico. Qui Assange ha trascorso 6 anni e 10 mesi spiato da una società spagnola, UC Global, azienda incaricata ufficialmente a sorvegliare l’ambasciata durante il periodo dell’asilo politico di Assange. La UC Global dell’ex soldato delle forze speciali David Morales inizia a spiare Assange quotidianamente con mezzi sofisticati. Sono stati violati i dispositivi elettronici suoi e di tutte le persone che lo hanno visitato in 7 anni: avvocati, attori, diplomatici, medici, giornalisti (la stessa Maurizi è stata spiata e intercettata).
Secondo il legale spagnolo di Assange, intervistato da Iacona, che ha raccolto dichiarazioni di ex dipendenti della società “i documenti finivano in mano ai servizi statunitensi. Dalle e-mail si conferma che dietro c’era CIA o FBI”. Ad ogni modo per sette anni la procura svedese ha lasciato aperto il caso Assange, rimasto a lungo alla fase di indagini preliminari senza rinvio a giudizio o archiviazione perché i magistrati svedesi non riuscivano a interrogare il giornalista. Sul punto la giornalista Stefania Maurizi ha scoperto un carteggio tra la procura di Stoccolma e l’ufficio inglese della Corte che si occupava del processo di estradizione in cui si evince “che sono stati gli inglesi a dire agli svedesi non venite qui a interrogarlo” in merito alla vicenda dei rapporti sessuali con le svedesi (la richiesta di estradizione parte perché le autorità svedesi volevano sentire Assange) e quindi hanno fatto fuori l’unica soluzione che avrebbe potuto portare a una chiusura rapida del caso. “Assange non sarebbe neanche entrato in ambasciata se ci fossero andati subito a sentirlo”. In pratica “tenere sotto accusa Assange per 7 anni è stata una strategia, una scelta consapevole”.
L’estradizione
Il capitolo più importante della trasmissione è quello relativo all’attualità, che vede un Julian Assange recluso in una cella di 9mq da due anni e mezzo, da quando Scotland Yard lo ha prelevato dall’ambasciata nell’aprile 2019, dopo la revoca dell’asilo politico da parte del neo presidente ecuadoregno Lenin Moreno. Le autorità britanniche rispondono a un mandato di cattura internazionale spiccato diversi anni fa dagli Stai Uniti proprio l’indomani che il capo dei servizi segreti dell’Ecuador (anche lui inconsapevolmente intercettato da UC Global), come spiegato da Presadiretta, aveva trovato una scappatoia verso un Paese terzo con permessi diplomatici speciali per far fuggire Assange. Nel 2018, l’amministrazione Trump ha incriminato Assange con l’accusa di crimine informatico. E in seguito, nel maggio 2019, aggiunge 17 capi d’accusa per spionaggio per un equivalente di 175 anni di reclusione.
Gli Stati uniti accusano in sostanza Assange di aver cospirato con la Manning (che nel frattempo ha scontato 7 anni in carcere prima di ricevere la grazia da Barack Obama) perché le fornisse documenti classificati della Difesa e di aver pubblicato i nomi delle persone che hanno lavorato per l’esercito americano nelle zone di guerra mettendo gravemente in pericolo la loro incolumità.
Ma questo assunto è invero, dicono i giornalisti che hanno lavorato con lui nel 2010: “Con Assange abbiamo deciso che il materiale non doveva essere pubblicato nella sua interezza ma dovevamo selezionarlo evitando di mettere a rischio la vita delle persone coinvolte nei file”, dice l’ex capo redattore del Dier Spiegel, giornale che insieme a The Guardian, New York Times e L’Espresso hanno ricevuto i file sui crimini di guerra nel 2010. Non solo. Nessuno dei collaboratori degli USA sono stati uccisi. Neanche uno. Julian Assange è stato accusato dalla procura statunitense di aver violato l’Espionage Act, una legge draconiana del lontano 1917, parliamo quindi di oltre un secolo fa, pensata per i traditori che passano informazioni al nemico. Un nemico che a rigor di logica andrebbe individuato nella popolazione civile dato che la colpa di Assange è quella di aver diffuso ai cittadini, alla gente comune, quel tipo di informazioni. Il ché la dice lunga sul concetto di democrazia dell’establishment americana.
Processo al giornalismo
Incriminare Assange per spionaggio (è la prima volta che viene accusato un giornalista di questo reato) ha una conseguenza drammatica, “perché fa diventare il giornalismo un crimine”. “Gli Stati Uniti accusano Assange sulla base di un reato del 1917 di spionaggio ma Assange non ha passato informazioni a un governo straniero. Come si fa a trattare la pubblicazione di notizie di interesse pubblico come un atto di spionaggio?”, si chiede Stella Moris. Sul punto è stato intervistato anche David Greene, che insieme ad altre 22 organizzazioni ha scritto al Dipartimento di stato americano perché gli Stati Uniti rinuncino a chiedere l’estradizione per Assange. “E’ molto preoccupante che il governo statunitense incrimini qualcuno solo perché ha fatto il suo dovere da giornalista”. “Perché quello che ha fatto lui lo fanno tutti i giornalisti, ricevere fonti, elaborarle e pubblicarle. E’ l’ABC del giornalismo e criminalizzare questo è molto pericoloso”, avverte. “Quello che gli americani vogliono fare con Assange è costruire un drammatico precedente e un deterrente per gli altri”, ha spiegato Stark. Ma perché vogliono questo? Secondo Nils Melzer, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, il sistema agisce in questo modo perché “Assange era diventato troppo pericoloso. Con Wikileas aveva costruito un meccanismo perfetto che era inattaccabile, chiunque avesse qualcosa da rivelare bastava che accedeva alla sua piattaforma e rivelava crimini di guerra e nessuno poteva fermarlo. Un meccanismo perfetto e molto facile da replicare. Altri 100 WikiLeaks sarebbero la fine dei segreti di Stato”.
“Lo scopo è smantellare questa organizzazione, WikiLeaks, queste cose non devono succedere mai più”, ha detto sul tema la Maurizi. “Il potere che si scherma dietro al segreto non lo fa per proteggere la sicurezza della collettività ma per proteggere la criminalità di stato”. “La cosa sconvolgente di questa vicenda e che è il cuore della stessa è che nessuno dei criminali di guerra e dei torturatori esposti da questi documenti è stato mai incriminato, sono tutti liberi come l’aria”.
A fine puntata il conduttore Iacona ha quindi ricordato tutte le ONG umanitarie, i leader politici, gli analisti, i cantanti, gli attori e le testate giornalistiche che chiedono all’Inghilterra di non consegnare Assange. “Del resto – ha conlcuso il conduttore – questa è una battaglia per la democrazia”. Una battaglia in cui un uomo ha sacrificato la sua libertà per restituire quella di tutti e per questo sta rischiando la vita. “Io posso sopportare tutto ma ho paura di andare negli Stati Uniti perché quella sarà la mia condanna a morte”, ha detto Assange a Melzer che ha accertato i casi di tortura psicologica e i rischi di suicidio per Assange in carcere. “Mi seppelliranno vivo in una prigione dove passerò il resto dei miei giorni”, gli ha detto ancora. “Se mi dovessero estradare farò in modo di non arrivarci vivo”.
VIDEO Guarda la puntata integrale: Clicca qui!
Tratto da: Antimafiaduemila
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